Ma perché?

Per festeggiare l’ennesimo giorno di coprifuoco, l’altra notte l’insonnia mi ha regalato il brivido di assistere in diretta all’arrivo dell’ora solare. Seduto in poltrona, gli occhi sbarrati e provvisoriamente sazi dalle precedenti tre ore di sonno, il corpo galleggiante nell’ovatta ovunque, la sensazione di potere che devono provare gli apparecchi elettronici quando, arrivati all’1%, sono rianimati da una batteria d’emergenza (ma è solo un fuoco di paglia, non dura, non durerà, la notte è lunga, troppe app, troppo cervello, troppo surriscaldamento) pensavo al fatto che in Francia l’ora legale e l’ora solare le chiamiamo heure d’été e heure d’hiver e mi chiedevo: “Ma perché?” (“E l’autunno? E la primavera?”) (“Si tratta di praticità? Di poesia? Di sciatteria?”). In mezzo a tutta questa perplessità, ma ormai ovviamente non stavo più pensando al cambio dell’ora, ho alzato la serranda e ho guardato fuori dalla finestra.

Come nel finale di quel film di Haneke in cui non si capisce se qualcuno abbia messo pausa o sia solo un altro mezzo di tortura psicologica inflitto a chi sta guardando, tutto era fermo. Sembrava che persino l’apocalisse stesse trattenendo il respiro, per verificare fin dove arrivare prima di arrendersi. Troppa stasi, troppa differita, troppo aspettare non si sa bene cosa, anzi no, una cosa che si muoveva c’era: una bicicletta, una di quelle a noleggio, era appoggiata senza garbo a una ringhiera, e il fanalino posteriore rosso lampeggiava senza sosta, avevo l’impressione di sentirne il battito anche a distanza: tic tac, tic tac, tic tac (“Ma perché lampeggia?”) (“Già, perché?”).

Mancava poco. Ho preso dalla tasca il telefono e ho aspettato il momento in cui sarebbero state le tre e poi le due, di nuovo. Il cuore mi batteva forte. Ho temuto che niente sarebbe più stato all’altezza di questa specie di trucco magico. Ho pensato a una mia amica, il giorno prima l’avevo chiamata perché avevo letto il titolo di un giornale (“Un’ora in più per dormire, un’ora in più per il coprifuoco”), e volevo lamentarmi con lei, chiederle “Perché improvvisamente tutti mi sembrano così cretini?”, ma lei mi aveva anticipato dicendo “Sai, mio marito è un cretino”.

Il mio problema con l’insonnia non è l’insonnia in sé, ma neanche in me, in te, in loro, in quelli che dicono: “Mi raccomando, stasera però cerca di dormire” (mio padre); “Hai provato con quella valeriana che ti ho messo l’anno scorso nel pacco da giù?” (mia madre); “Apri whatsapp, ti mando subito il contatto del mio nuovo spacciatore” (chi mi vuole davvero bene); “Signor Morabito”, pausa di compassione, mezzo sorriso, “per oggi la seduta è finita” (la mia ex-analista); “l’insonnia è bellissima, finalmente posso dedicarmi a me stessa” (persone mitomani a caso). No, il mio vero problema con l’insonnia è l’attimo in cui metti un piede nell’interstizio, e inizi a fluttuare, fluttuare, e provi ad aggrapparti a qualsiasi cosa (Malamud; Mia Ceran; Tom Mercier; i cereali mangiati direttamente dalla scatola) ma tutto scappa di mano, si sfarina, cede, non esiste: ciò che all’inizio era dolce assenza di gravità a poco a poco si trasforma in qualcos’altro, lo spazio si restringe il nero si allaga, come nel finale dei vecchi cartoni quando una specie di dissolvenza a monocolo lasciava solo un cerchietto con il protagonista e partiva la buffa musichetta, solo che questo non è un cartone e non c’è niente da ridere.

All’alba ho modificato manualmente l’orario del forno perdendo un po’ più di tempo del necessario perché mi sono messo a pensare che forse dovrei comprarmi delle ciabatte invernali, o forse no, poi ho iniziato a leggere l’edizione digitale di Libération dedicata alla gauche francese e all’Islam, alle divisioni interne alla gauche francese, ho annuito nel vuoto leggendo delle cose, mi sono innervosito leggendone altre, ho pensato a Samuel Paty, il professore decapitato, mi sono ritrovato in un vicolo cieco come ormai troppo spesso mi capita quando cerco di collocarmi politicamente, ho ripensato a quello che dicevo giorni prima a un’altra mia amica, sai non riesco più a entrare in un cinema, non ce la faccio, entro fine mese decido se disdire la tessera Ugc, ho pensato a una scena dell’ultimo film di Sorkin che sembrava scritta da Robert e Michelle King, e ho sorriso, quelli bravi io me li immagino che si divertono sempre.

Mi sono vestito pesante, ho messo una sciarpa di lana intorno al collo, ho preso l’ombrello, e sono uscito. Fuori pioveva in diagonale, le raffiche di vento freddo sollevavano le foglie esauste facendole roteare inutilmente prima di ributtarle per terra a schiaffi. Camminavo sul viale, e mi sentivo la faccia tagliata in due, una e due. All’incrocio con rue Cambronne una fila di taxi vuoti sonnecchiava in attesa di clienti, rivoli di pioggia mista a fango colavano sotto i marciapiedi, il fioraio dell’angolo ne approfittava per buttare secchiate di acqua lorda. Mentre attraversavo la strada per andare in boulangerie ho incrociato un tizio con i capelli lunghi ossigenati, una specie di versione adulta e ancora più irregolare del ragazzino di We are who we are. Indossava dei boxer da mare di color verde con tanti piccoli ananas stampati, una camicia hawaiana a fiori e un paio di infradito con cui sembrava pattinare sull’acqua, quale pioggia, quale freddo, quale cosce di fuori, quale preoccupazioni. Mi sono chiesto se vedesse in me la versione speculare dell’alieno che avevo di fronte, un’ apparizione resa concreta dall’unico dettaglio fuori posto, una mascherina slabbrata appesa al mento, gocciolante di pioggia. Ma poi l’ho superato, sono entrato in boulangerie e ho comprato i cornetti. Mi sono infastidito, perché la busta era troppo piccola e i cornetti sbucavano da sopra, si stavano già ammosciando. Tornando verso casa ho cercato il punto esatto del marciapiede sotto la mia finestra. La bicicletta era ancora appoggiata senza garbo alla ringhiera. Mi sono avvicinato per guardare il fanalino posteriore rosso: mi sembrava che lampeggiasse più debolmente, forse si sta scaricando, ho pensato, o forse è solo che di notte ogni cosa è più nitida, specialmente i fanalini che lampeggiano senza sosta e non sai perché.

Un pezzo alla volta

Dieci anni fa oggi — giorno più giorno meno — uscivo dalla casa di Pietralata per l’ultima volta e, dopo aver finito di caricare la twingo velvet (“Ci starà tutta la mia vita in macchina? Non sarà troppo pesante? E se mi fermano i ladri e mi rubano tutte cose?”, mi domandavo nei giorni precedenti, vagando di sgomento per le terre tiburtine), esalai il penultimo respiro, verificando che avevo malcalcolato i libri, libri sempre questi libri, e dovetti prima passare dalla posta di Piazza Bologna per spedirne alcuni pacchi a Palermo (“Ma ti servono proprio tutti?”, mia madre, al telefono) ritardando così l’addio di altre eterne ore, Roma non mi voleva proprio lasciare andare, no no no, ma poi partimmo sì sì sì, al plurale, ciao ciao e tante care cose,

e attraversammo Lazio, Toscana, Emilia Romagna e poi su su su, il piano fallito prevedeva la sosta a Lione invece fu Aosta e la mattina dopo prendemmo la rincorsa sul versante italiano del Monte Bianco che era tutto un grigio e pioggia e cupezza italiana e dopo gli 11 km uscimmo dall’altro lato che era sole, cielo azzurro e uccellini e soavità di Francia e dopo qualche ora di autostrade larghissime e paesaggi incontaminati e vuoti (“Ma dove cazzo vivono i francesi?” “Ai lati” “Ah ecco perché parlano sempre col culo a pizzo”), finalmente il périph che mi ingannò, così apparentemente rilassato in confronto al brutalism coatto del raccordo anulare, e anche se ancora non parlavo una parola di francese (“yo hablar francés un día”) e le cose si sarebbero assai complicate verso la fine della seconda stagione e l’inizio della terza, e lì per lì chi aveva voglia di pensare ai nuovi discutibili personaggi disagiati che avrei incrociato e alle storyline tutte uguali di emigrazioni oh oh oh che sofferenza oh oh oh mi manca la madrepatria oh oh oh lu sule lu mare lu ientu

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quando invece l’ingresso a Parigi dalla Porte d’Italie passando per Avenue d’Italie e Place d’Italie (“Ma che è, una persecuzione?” “Ma no, è solo destino”) si svolse in un clima di festosa fanfara, i semafori verdi e rossi ma non arancioni (“Non ne hanno bisogno, è gente civilizzata, sanno quando dire basta”), e le strade larghe larghe e senza traffico, ma quale Prenestina e Tuscolana, ci consegnarono dritti dritti alla prima casa parigina, i furon 21 mq di Place Monge, sesto piano senza ascensore, senti come suona bene?, se-sto-pia-no-sen-za-a-scen-so-re, la cucina in bagno e viceversa, che bella la rive gauche dov’è Isabelle Huppert dov’è Louis Garrel dov’è Jérémie Elkaïm (“Ma io voglio andare a rive droite voglio fare le occupazioni” “Le farai, le farai”), 21 mq a due passi dalla moschea, nemmeno il tempo di parcheggiare e una mendicante con qualcosa nel cappello vedendo la mia faccia mi parlò direttamente in arabo e io sorrisi e mi sentii diciamo a casa

e poi, portando la mia vita dalla twingo al se-sto-pia-no-sen-za-a-scen-so-re, all’ennesimo su e giù sommato ai due giorni di viaggio (“Si è rotto il giradischi” “Sarà stata quella frenata a Roncobilaccio”), su un pianerottolo di legno odoroso ebbi quel che oggi mi vien da dire un mancamento, ma le scale erano così strette di charme simil germanopratino e di trappole per topi che non riuscii nemmeno a svenire, mi sorresse la finestrella aperta sui troppi tetti della città, quel poco d’aria necessaria a certificare il salto dell’intercapedine tra i due mondi, rester vertical et revenir enfin sur terre, e non lo sapevo ancora ma avevo un piano, e il piano era andare verso Nord per perderlo, il Nord, e la bussola, e l’orientamento e tutte cose, e poi, con calma, rifare il puzzle daccapo, un pezzo alla volta, magari sarebbe andata meglio, ma intanto, dieci anni fa oggi, c’era da finire un trasloco, sì, un pezzo alla volta.

“Di Jean Genet, con David Bowie”

Nel 1986, qualche giorno prima di morire, Jean Genet andò dal suo avvocato Roland Dumas (ex ministro, sodale di Mitterand, già difensore di Jacques Lacan, Marc Chagall e di Pablo Picasso, per il quale organizzò il rientro in Spagna di Guernica) e gli affidò due valigie piene di testi inediti, documenti, quaderni, appunti, sceneggiature mai realizzate, lettere, cartoline, libretti dei vaccini: “Ne faccia quello che vuole”.

Per una quindicina d’anni queste valigie rimasero nascoste finché nel 2000 Dumas non propose a Albert Dichy, uno studioso dell’opera di Genet, di visionarle. Dichy rimase stupefatto dal contenuto e dalla quantità di materiale: “Les valises obligent à reconsiderer le mite d’un ‘dernier Genet’ silencieux, legende qu’il a lui-même savamment entretenue. Leur contenu raconte la lutte entre un écrivain qui ne veut plus écrire et l’écriture qui le submerge“. Dichy chiese a Dumas di cedere le valigie all’IMEC (Institut mémoires de l’edition contemporaine, che tra le altre cose ospita il fondo Genet), ma Dumas temporeggiò a lungo, prima di cedere nel 2019. I testi vennero ricopiati, analizzati e selezionati. E ora, a fine ottobre 2020 il contenuto delle due valigie verrà esposto a Caen.

Tra i vari documenti fu ritrovata anche la sceneggiatura tratta dal primo romanzo di Genet, Notre-Dame des Fleurs (1943), presumibilmente scritta tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70. Fu un certo David Bowie, deciso a interpretare Divine/Louis Culafroy, protagonista del libro, a proporre a Genet il progetto. I due si incontrarono in un ristorante di Londra agli inizi degli anni ’70. Come scrive Edmund White nella sua monumentale biografia di Genet, Bowie si presentò in abiti femminili, e Genet, quando lo vide (“an attractive woman sitting by herself”) esordì così: “Mr Bowie, I presume”.

Alla fine il film non si fece perché non si trovò nessuno disposto a finanziarlo, ma chissà, magari un giorno pubblicheranno la sceneggiatura, e leggendola potremo scatenare la nostra immaginazione, pensando a quello che avremmo potuto avere, vedere, amare o anche, perché no, detestare: David Bowie nei panni di Divine, diretto da Jean Genet.

[La foto a sinistra è un celebre scatto di Genet (notare le iniziali sulla camicia) ad opera di Hervé Lewandowski. A destra, la foto di una mia copia del librone di White, rispolverata (letteralmente) per l’occasione].

The boys in the band

The boys in the band è un film del 1970 diretto da William Friedkin (L’esorcista, Cruising). La sceneggiatura è basata sulla pièce teatrale di Mart Crowley del 1968. Prima di Stonewall, prima di tutto. Agli attori, bravi e coraggiosi, dobbiamo parecchio. Molti di loro morirono di Aids nell’indifferenza generale. Questo fu il loro unico ruolo di successo, se di successo possiamo parlare.

C’è una storia legata a questo film che ogni volta che la leggo mi riduce a brandellini: il personaggio di Emory era interpretato da Cliff Gorman, che nella vita era etero. Gorman rimase molto amico di Robert La Tourneaux, l’attore che interpretava il “regalo” di compleanno per Harold. Quando La Tourneaux si ammalò di Aids, Gorman e sua moglie si presero cura di lui fino alla morte.

Gorman è il primo da sinistra, La Tourneaux quello seduto in basso.

A volte penso che se oggi possiamo spararci i selfie mezzi nudi mentre ci lecchiamo le ascelle in mezzo alle piante con Lana del Rey in sottofondo e poi condividiamo tutto sui social senza pudor né verguenza, beh, un pezzo di merito va anche a gente come questa, che accettò stigma e disapprovazione pur di recitare un testo così bello.

Perché Mart Crowley scrisse un testo incredibile, che merita di essere letto, riletto, visto e rivisto. La cognizione è di causa. Due anni fa sono andato *apposta* a New York per vedere lo spettacolo teatrale revival. Fuori faceva caldissimo, era estate. Dentro faceva freddissimo (è New York, lo spreco di risorse, di cibo, di aria) ma non ce ne accorgemmo perché 1) Jim Parsons fu bravissimo nel ruolo del protagonista Michael e 2) Matt Bomer si fece la doccia in scena (ne scrissi qui ai tempi).

E adesso quello scaltrone di Ryan Murphy ha prodotto anche il film-revival, disponibile su Netflix. Non amo Murphy e non amo Netflix, questo film non aggiunge nulla all’originale, di cui è praticamente una pallida cover con una regia modesta e delle scelte persino più conservatrici e melodrammatiche dell’originale. Ma Jim Parsons è sempre eccellente, Zachary Quinto è sempre un gran pezzo di istrione, e Matt Bomer è ancora più nudo.  E soprattutto, allegato al film (da cercare nel catalogo ottuso di Netflix) c’è la cosa migliore di questo remake: il bonus di mezz’ora girato nel 2019 e dedicato a Mart Crowley, al suo talento, alla sua ironia. Mart Crowley è morto nel marzo 2020.

Vedi se trovi una pietra

“Vedi se trovi una pietra, bella grossa mi raccomando”

Tutto quello che c’è da capire su qualcuno lo capisci da come pianta gli ombrelloni (o da come istruisce gli altri sul piantare gli ombrelloni) (o da come li lascia a casa, gli ombrelloni e tuttecose).


[The Weeknd – In your eyes]

Il tubo verde

Una cosa che forse conta, in questo cursore che sempre lampeggia, è la giusta distanza, per esempio tra un sostantivo e un aggettivo, tra un pensiero e l’arte che mettiamo giù in forme imperfette e remote, tra una finestra senza vetri e le cose che pensavo fossero mie: se afferri il tubo verde, lo vedi?, e lo tiri, capisci senza indugio dove volevo portarti con questa foto.

[Alfie Templeman – Things I Thought Were Mine]

La solitude des arbres

Ci sono abitudini che fanno presto a consolidarsi, e persino la prima volta ti sembra già l’ennesima, senza il peso di quella doppia enne, e questa abitudine, questa foto, è fatta di una robusta accelerata in salita, di pedali che girano da soli, di una frenata rumorosa come ogni vecchia bicicletta esige, e infine di occhi a fessuretta per inquadrare, campo stretto, quelle tre gambette esili esili e i ciuffetti verdi in testa, il tempo di dire Va bene, tutto a posto, e ripartire. 

[Purple disco machine + Sophie and the giants – Hypnotized]

Breve storia panormita

Possono essere le nove, le nove e un quarto del mattino. Il lungomare sa già d’artificio e olio esausto. Gente, poca. Io corro, sbuffo, vedo Madonne, colo sudore e fiducia in un mondo migliore. Da lontano vedo una figura minuta assittata su un muretto. Rallento, mi fermo, metto le mani sulle ginocchia, respiro. Si tratta di una donna, vecchissima, ottanta a salire. Sul palmo della mano destra tiene un piattino di plastica pieno di panelle e crocchette fritte. Con il pollice e l’indice dell’altra mano prende una panella e inizia a succhiarla, lentamente, come fosse un ghiacciolo di refrigerio. Sta godendo. Mi guarda, mi fa: Vuole favorire? La guardo, sorrido, le faccio: No, grazie, ho smesso nel ’93. Lei si raccoglie con il mignolo sinistro un rivolo di sugna. Con il mento mi indica un punto verso gli scogli. Un uomo sulla cinquantina sta prendendo il sole con indosso uno striminzito slip fosforescente e una mascherina che gli copre naso e bocca. La vecchia annuisce, si lecca un dito, dice: Ognuno. Io annuisco pure, penso al segno dell’abbronzatura sulla faccia di quell’uomo, poi dico: Vabbè, buona giornata signora, arrivederci. Lei non dice niente, fa solo un gesto con la mano sinistra, come a scacciare un malo pensiero, poi prende una panella e ricomincia a succhiare. 

[Topic + A7S – Breaking me]

Lo scoglio Palermo

Questo scoglio si chiama Palermo, perché a Palermo anche gli scogli guardano l’orizzonte e rimangono a bocca aperta, quando il caldo ha appena girato l’angolo lasciando dietro di sé una tabula rasa di meraviglie, costumi bagnati, amori passati e amori futuri, e tra poco lo scoglio Palermo getterà un ultimo sguardo a quella buffa linea che pare essersi coricata liscia liscia solo perché non aveva niente da fare, solo qualcuno da incontrare, qualcosa da sognare, e tornerà indietro, oscillando la testa di qua e di là, spasmi intermittenti di incredulità, pensando a quel che accade, dopo lo stupore.

[KERA feat. Devendra Banhart – Bright future ahead]