Bonne nouvelle

Ieri, primo gennaio duemilaventi, abbiamo preso la linea 8. Passando da Bonne Nouvelle abbiamo trovato questa scritta. Nella carrozza eravamo in quattro, e in quattro abbiamo sorriso. Su una metro parigina non succedeva dal ’67 (detto altrimenti: la nostra azienda dei trasporti pubblici è migliore della vostra).

Una specie di bilancio

E persino una città come Parigi, ossessionata dalle facciate pulite, no panni stesi, no antenne, no balconi, no niente, quest’anno si è lasciata un po’ andare. Alcune scritte sono rimaste più a lungo, il presunto decoro poteva attendere o, semplicemente, anche i censori erano esausti.C’è l’ancien monde all’esterno di una banca, nei giorni delle proteste, quando la paralisi generale dello scorso inverno ci pareva il problema più grande; c’è l’immonde d’après di uno dei miei posti preferiti della città, poco dietro l’amatissima libreria Le Monte-en-l’air dell’amatissima Ménilmontant; c’è la prima immagine dopo tre settimane consecutive di casa, il lenzuolo con la proposta di matrimonio all’immaginiamo bel Jeremy; c’è la rivendicazione di essere qui je suis lasciata così, sul marciapiede, fatene quel che volete, i fondamentali.E poi. C’è il saluto dei marinai palermitani nei giorni del Festino, il primo Festino senza il Festino, raffinata figura retorica che, mi piace pensare così, sapeva di esserlo; e c’è l’afasia di quei giorni di settembre, davanti a quelle lettere scomparse, o dimenticate. Gentilezza e atti di bellezza. Un imperativo sospeso nel vuoto, cliffhanger sugli orrori moltiplicati dell’ultimo biennio: l’unico rimpianto è non essere tornato in quella traversa di via Roma con i secchi di vernice bianca e un grande pennello. Chissà, magari sono ancora in tempo, a Palermo si è sempre in tempo.

La bottiglia di aranciata

Pomeriggio d’estate, la stagione che stavolta deve solo far uscire i pensieri senza altri pensieri, sto guidando senza meta su una statale siciliana, direzione il mare, uno qualunque. La strada è sgombra, a sinistra il nulla, a destra il nulla, ogni tanto una macchina, ogni tanto un cartello, ogni tanto una rotatoria cervellotica. Volendo descrivere questo territorio che ha regalato alcuni tra i più importanti scrittori del Novecento, siciliano, italiano, europeo: ogni cosa è arida, ogni cosa è accesa dal sole e bruciata dall’uomo, ogni cosa è rallentata dalla minaccia della terra che si fa acqua e allora perché continuare a costruire questo ponte, lasciamolo così, a metà costruito, a metà sospirato. Soprattutto: ogni cosa è aggrovigliata, senza logica, senza costrutto, sensi unici sensi doppi sensi tripli, come per dispetto, come a dire dal labirinto non si esce, inutile che ti agiti, qua stiamo e qua staremo. Ma poi, e lo sai solo poi, le promesse si avverano,

e allora dalla statale svoltiamo a destra all’ultimo istante utile, il cartello blu con la freccia è già un ricordo, entriamo a S., questo paesino non previsto che prima era solo un suono e ora invece parcheggiamo nella piazzetta principale, sotto un monumento ai caduti della guerra, nomi, cognomi, date di nascita, date di morte. Cosa ti aspetti da un paesino siciliano, un pomeriggio d’estate: case basse, fiat panda e fiat ritmo, manifesti elettorali scoloriti, un gruppo di vecchi seduti su un muretto all’ombra, adolescenti che sgasano sui motorini, ridono, un bar deserto, un ragazzo e una ragazza, sistemano le sedie e spazzano per terra, dagli enormi amplificatori Be my lover e Freed from desire stordiscono il tempo sospeso degli anni che non lasceremo mai andare via. Cosa non ti aspetti da un paesino siciliano, un pomeriggio d’estate: questa è la facciata, la conferma dei luoghi non a caso comuni, ma la parte migliore è sempre dietro, le quinte che non sai cosa ti riservano, e poi, solo poi, le promesse che si avverano. Vicoli, scale, uno spiazzo, una vallata che parte da qui e finisce là, silenzio. Siamo due e siamo gli ultimi su questa terra, non è più Sicilia, è sempre e solo Sicilia. Ruotiamo su noi stessi, le uniche tracce umane: secchi rovesciati, muri stinti, piante secche, la porta aperta di una vecchia casa, abbandonata. Sembra che chiunque sia scappato all’improvviso, gli invasori, o qualcosa del genere. Cercate la chiesa?,

dal nulla, una voce, dall’alto, alle mie spalle. Mi volto, alzo gli occhi, metto le mani a visiera. Una donna, anziana, sta dando da bere alle piante del suo balcone. Esito, non stiamo cercando la chiesa, ma la donna, con il suo sorriso, mi convince che Sì, signora, stiamo cercando la chiesa. Lei poggia l’annaffiatoio verde, asciuga le mani sul grembiule, prende un gran bel respiro e spiega come arrivarci, A quest’ora è chiusa ma voi provate a bussare lo stesso. Siete turisti? Turisti no, stranieri un po’ sì, Palermo, Genova, Parigi. Parigi?, il volto della signora si illumina ancora di più, Ma io parlo francese, ho vissuto in Svizzera tanti anni, Voulez-vous quelque chose à boire?, sorridiamo, lei dice aspettate che scendo giù, così è brutto parlare, fate il giro della casa che stiamo più comodi. Obbediamo, facciamo il giro,

e lei è già lì, ci viene incontro con una bottiglia da mezzo litro di un’aranciata: ecco, è per voi, la tengo in frigo per i turisti che cercano la chiesa. Mi porge la bottiglia, questa donna sbucata dal nulla, i capelli lunghi e imperfetti, i segni di un’età che va avanti da troppo tempo, i suoi occhi piantati nei miei, prendo la bottiglia, come fosse la staffetta di chissà quale segreto che custodirò almeno per il resto di questo pomeriggio: si chiama Maria, negli anni ’70 è emigrata in Svizzera e ha vissuto parecchi anni in questa città che si chiama, si chiama, aspettate, e questo suo gesto di schermirsi, mettendo la mano davanti agli occhi mi ammazza, mi ammazza, questo anno disgraziato, e le sofferenze, e il buco nero di aprile, e ora una sconosciuta mi riduce a pezzettini, io e la mia bottiglia di aranciata tra le mani, Maria che ci chiede scusa per non ricordarsi il nome della città, Maria che ci dà del tu, e noi pure, e iniziamo il gioco delle città svizzere, lei dice Locarno, ma poi si corregge No Locarno no, allora io dico Lucerna!, e lei dice No Lucerna no, forse Locarno, sì è Locarno, e io dico Sì sarà Locarno, e lei dice Lavoravo in una fabbrica di sigarette, facevo le sigarette, e io dico Le sigarette, e lei dice Quanto mi piaceva parlare francese, c’est ça, c’est ça, e noi diciamo Oui oui, e lei dice Oh quelle belle langue, quanto mi piaceva parlare francese, e poi dice Ma poi mio marito è voluto tornare qua, io non volevo, io volevo stare lì, in Svizzera, però è rimasto un mio cugino che ha aperto un ristorante da tanti anni, ah!, sapete chi va a mangiare al ristorante di mio cugino?, noi diciamo Chi?, lei dice Mina, la cantante!, io dico Allora la città è Lugano!, lei si illumina e dice Sì Lugano!, e si schermisce ancora e ancora, come a scusarsi di non aver trovato lei il nome giusto, e io stringo forte la bottiglia di aranciata, e lei dice ma che stavo dicendo?,

e io dico Le sigarette?, lei dice No no no, ah sì, sapete, quest’anno ho fatto ottant’anni, e una mattina ero qua a casa, davo da bere alle piante, squilla il telefono, è mio cugino dalla Svizzera che mi fa gli auguri e mi dice Ora ti passo una persona che ti fa gli auguri pure lei, e Maria scoppia a ridere e la racconta come se fosse adesso, l’incredulità, e noi capiamo e diciamo in coro Non è vero!, e lei dice Sì era la Mina!, così, con l’articolo determinativo, la Mina!, e ridiamo, la Mina!, ridiamo e ridiamo, siamo tre e siamo bellissimi mentre lei dice Sapete io e la Mina siamo gemelle, anche lei ha fatto ottant’anni quest’anno, io gliel’avevo detto a mio cugino di dirglielo che eravamo gemelle, ragazzi miei la Mina al telefono non potevo crederci, mi mandava i bacini alla cornetta e dicevo Mina ciao Mina, che bella che sei Mina,

e Maria racconta racconta e racconta, e io la ascolto e vorrei abbracciarla ma non si può, Maria che parla di suo marito che non c’è più, di sua figlia che non viene mai a trovarla perché deve lavorare, Maria che dice che questa casa da sola non sa che farsene, Maria che dice Vi ho visti che cercavate la chiesa e vi ho chiamati, io conservo sempre qualcosa in frigo per i turisti che cercano la chiesa, e io dico Fai bene Maria, e lei dice Restate fino a stasera? C’è la processione, c’è un sacco di gente, forse viene anche mia figlia, e io stringo forte la bottiglia di aranciata, e dico No, dobbiamo andare, grazie Maria, ciao Maria, t’es belle Maria, au revoir Maria, e torniamo sui nostri passi, gli scalini, lo spiazzo, e in un attimo siamo dentro il futuro, il futuro, la statale, direzione il mare, uno qualunque, un pomeriggio d’estate di un anno non come gli altri, e se mi volto adesso Maria è ancora lì, sulla porta di casa, ci saluta con la mano, e io agito in aria la bottiglia di aranciata, Ciao Maria, merci Maria, la prossima volta parliamo solo in francese, promesso.

La bella estate non c’è più

Dopo non so più quanto tempo ieri sono uscito di casa senza obiettivi precisi e, come succedeva una volta, dopo un paio d’ore sono finito per puro caso in una brocante piena piena piena di roba e cianfrusaglie e cose inutili e servizi di piatti e quadri e tappeti impolverati.

Per terra c’erano delle frecce tipo ikea accompagnate dalla scritta “per non incrociare le altre persone”. Seguendo il percorso con gli occhi bassi bassi, sono finito in un angolo del locale dove c’era una pila di vecchi libri, tra cui questa edizione francese del 1955 de La bella estate di Pavese.

L’ho sfogliata cercando tracce umane tipo dediche, foto o cartoline come quasi sempre accade con i libri delle brocante. Invece ho trovato qui e là solo delle chiazze ormai secche di umidità. Nella quarta pagina, in basso, il logo di Gallimard e la scritta “Tous droits de traduction, de reproduction et d’adaptation réservés pour tous les pays, y compris l’U.R.S.S”.

Ho cercato con lo sguardo il vecchio proprietario e gli ho chiesto quanto costasse. Lui ha preso il libro in mano, lo ha soppesato, ha detto “Un euro”. Dalla tasca ho preso due monete da cinquanta e le ho messe sul suo palmo. Mi aspettavo che mi desse il libro, invece lui ha esitato, mi ha guardato fisso fisso negli occhi e ha detto “Aspetti, devo dire a mia moglie che La bella estate non c’è più”. Ha chiamato la moglie, lei è arrivata, lui ha detto “La bella estate non c’è più, se l’è presa questo signore”. Lei ha detto “Va bene” e mi ha sorriso. Ho restituito il sorriso. A quel punto il marito mi ha consegnato il libro e ha detto “La bella estate non c’è più”. Io ho detto “Già”. Poi ho messo il libro in tasca e sono uscito.

Ogni giorno, verso le 15

Ho scoperto che in un punto preciso di casa mia, tra la porta della camera e la porta dello studio, ogni giorno verso le 15, posso sentire qualcuno che suona un pianoforte. Ho fatto le prove in altri punti della casa, niente. Solo lì, in quel punto tra la camera e lo studio, per un curioso fenomeno di propagazione del suono, sento questa persona. Non si trova al piano di sopra, perché la musica arriva come attraverso un blocco di ovatta. Potrebbe essere due piani più su. Non ne ho idea. E non ho idea di chi possa essere, è un condominio di borghese riservatezza. So però che questa persona non è alle prime armi: non si interrompe mai. E so anche un’altra cosa, perché niente come certa musica che ti coglie senza difese può scatenare l’immaginazione: la ascolto, e mi viene in mente una ragazza, sulla ventina, la vedo di spalle, ha i capelli lunghi. Ecco finalmente una piccola cosa bella: ogni giorno, verso le 15, interrompo quello che sto facendo, mi metto nel punto preciso tra la camera e lo studio, mi appoggio al muro con le mani dietro la schiena, e per qualche minuto tutto si placa, mentre ascolto la ragazza sulla ventina, i capelli lunghi, che suona il pianoforte solo per me.

La briochette au chocolat blanc

Quando penso ai vaccini mi vengono in mente due cose, a volte una a volte l’altra. La prima sono i segni sul braccio dei miei genitori e dei miei zii e di tutti gli adulti e io, bambino negazionista incosciente, dicevo che schifo io non le voglio quelle cicatrici, ma siccome non sapevo ancora cosa fossero i vaccini, eppure già rifiutandoli, forse era solo che non volevo diventare adulto e vaccinato e restare bambino e frignone per sempre.

La seconda è che ai tempi dell’università avevo un amico che si vaccinava sempre contro l’influenza e io gli dicevo Me pari un vecchio ma che ti vaccini a fare siamo giovani ma che ci deve succedere e lui si toccava i coglioni e dava pure un colpetto di tosse già che c’era e poi andavamo a fare lezione con Maurizio Costanzo e Laura Freddi e io lo sfottevo da lontano facendo l’imitazione di un vecchio.

Parlo di vaccini perché l’altro giorno finalmente ho fatto il vaccino (“HAI FATTO IL VACCINO PER IL COVID?” “No, papà, per l’influenza, vivo in Francia, non in Russia, ricordi?”). Dopo settimane di muri sbattuti (“Monsieur Morabito, il vaccino lo diamo prima alle persone anziane” “Ma io sono anziano, vecchio, vecchissimo, faccio i meme su Orson Welles” “No monsieur Morabito, lei è giovanissimo, ed è anche in perfetta forma a quanto vedo” “Oh grazie”), finalmente hanno aperto a tutti la possibilità di vaccinarsi.

Così sono andato in questo centro di vaccini vicino casa mia dove ti fanno il vaccino gratis. Ho suonato al citofono del centro vaccini, sono entrato, ho parlato con la tipa dei vaccini all’accueil (“Monsieur Morabito, lei ha un cognome così bello, così facile da scrivere, non capita tutti i giorni” “Lo so, signora, LO SO”) e mi sono seduto ad aspettare nella sala d’aspetto dei vaccini. Ho guardato i poster sui vaccini ai muri, la gente che usciva con questo senso del drama tenendosi il braccio come se avesse fatto il fronte nel ’15-’18 e ho pensato Pensa se entra qua dentro un negazionista antivaccinista, esplode senza manco capirci niente. Poi ho pensato ai segni sul braccio degli adulti quando ero bambino e al mio amico che si toccava i coglioni ogni volta che a ottobre arrivavano i primi venticelli freschi e poi qualcuno ha fatto il mio nome.

Mentre alzavo la manica del maglione la dottoressa mi ha chiesto: lei è allergico al pollo? Ho fatto la faccia Aubrey Plaza e ho detto AL POLLO? Lei l’ha preso per un no e ha rilanciato: e all’uovo? Io ho guardato la segretaria che in un angolo della stanza stava stenografando i nostri dialoghi (“Ma perché nell’angolo della stanza dei vaccini c’è una persona che stenografa i nostri dialoghi?”) cercando un sostegno non dico amichevole ma proprio umano ma quella ha scrollato le spalle tipo Ah beh non guardare me e ha ricominciato a battere sui tasti mentre la dottoressa diceva No perché questo vaccino è stato fatto con il pollo e con l’uovo. Io ho pensato Meno male che sono flexitariano sennò qua finiva veramente a schifìo, poi ho detto No, sono solo allergico alla polvere ho fatto le prove allergiche una volta a Roma questo vaccino non è mica fatto con la polvere?, e a posteriori credo che qui la dottoressa abbia deciso di togliermi il saluto, perché da quel momento non mi ha più degnato di uno sguardo, mi ha fatto la puntura e mi ha solo detto Aspetti cinque minuti in sala d’attesa per sicurezza e poi vada via.

Mentre tornavo a casa a piedi, pensando al mio amico dell’università, a Laura Freddi, a mia nonna, alle cicatrici sul braccio di mio zio quando andavamo al mare tutti assieme a Scopello, ho preso una traversa a caso e ho visto una boulangerie che non avevo mai notato prima della pandemia. Sono entrato, ho chiesto alla panettiera Ma siete nuovi?, lei mi ha detto Bonjour, ho detto Vorrei questa briochette au chocolat blanc e lei ha detto Ma lei abita nel quartiere?, poi sono uscito e mentre mangiavo la briochette au chocolat blanc ho pensato Questa briochette au chocolat blanc è la migliore briochette au chocolat blanc che abbia mai mangiato, se non fossi andato a farmi il vaccino non l’avrei scoperta, certo che la vita è proprio buffa.

1974, une partie de campagne

La morte di Valéry Giscard d’Estaing ha riportato l’attenzione su un film documentario di Raymond Depardon sulla campagna presidenziale di Giscard. Il film si chiama “1974, une partie de campagne” e ha una storia pazzesca.

Nel 1974, durante un volo aereo, Giscard e Depardon iniziano a discutere di un possibile progetto assieme. Depardon gli propone di seguire il modello di “Primary”, un film di Richard Leacock del 1960 sulla campagna di John Fitzgerald Kennedy. Giscard nicchia, chiede prima un preventivo al giovane Depardon ma alla fine accetta. Depardon inizia a seguirlo ovunque, spesso con la macchina da presa in spalla. Du jamais vu.

Depardon vuole filmare “la vérité des choses cachées”, alla Wiseman. Giscard sta al gioco, ma non sa ancora cosa lo aspetta. Depardon infatti privilegia il Giscard del quotidiano: mentre guida la sua utilitaria, mentre si pettina in continuazione i capelli (sua vera ossessione), mentre beve una pinta di birra. Soprattutto, coglie la solitudine dell’uomo e del politico: la scena di Giscard che scopre, da solo, di aver vinto di un soffio le elezioni, è magnifica. In quel momento, davanti alla tv nell’ufficio del Palais du Louvre, ci sono solo loro due. Depardon non fa nulla per nascondere la sua presenza con movimenti continui della macchina da presa, Giscard rimane impassibile. Anni dopo dirà il regista: “C’est lui qui a mis en scène ce moment. C’était un grand acteur, un séducteur, un manipulateur”.

Una volta eletto, Giscard visiona il film a più riprese e, a più riprese, ne impedisce la diffusione. Lo giudica un film “violento”, non gli piace, non è soddisfatto dell’immagine che veicola. Ha paura di quella realtà filmica che gli è sfuggita di mano. Il cinema ha preso il sopravvento. Evidentemente Giscard ha intuito i mutamenti in atto nel rapporto tra politica e immagine, ma ancora non è pronto ad accettarli. Depardon dirà che il vero problema per Giscard era il suono in presa diretta. Qualcosa di rivoluzionario, per la politica dell’epoca, abituata alle inquadratura fisse da lontano e alle musiche aggiunte in montaggio.Sta di fatto che il film rimane bloccato, e ben presto acquisisce la fama di film “censurato”. Depardon, accusato per anni di essere stato troppo “giscardien”, di essersi “venduto” (il collega William Klein gli toglie addirittura il saluto), improvvisamente viene rivalutato a sinistra e prosegue la sua carriera di cineasta.Il film esce infine nel 2002, 28 anni dopo. Al momento della diffusione stampa e pubblico rimangono sorpresi. Il film non presenta alcun elemento di “violenza” o di sconvenienza, come era lecito aspettarsi. Giscard non darà mai spiegazioni, la sua ostinazione rimarrà sempre incomprensibile. “1974, une partie de campagne” è un documento prezioso, in anticipo sui tempi. Riesce a fotografare un’epoca di mezzo, come solo certo cinema può fare. Ancora oggi Depardon lo ritiene il suo film migliore.

Finisce ma non finisce

Un mese di pallido lockdown, passato così. Così. Tanto lavorato e poco dormito, va bene. Un mese di pallido lockdown, cioè: fuori casa ore d’aria, baguette e spese non proprio bio, dentro casa ore allo schermo, cervicali e cuffie che lasciano il segno sul cranio. Un mese di lockdown, al rallentatore. Ho dimenticato le facce delle persone, facce amiche e facce conoscenti. Che fanno, dove sono, che pensano.

Routine, moltiplicata all’infinito. Alleno il mio corpo nello spazio in cui mangio, in cui lavoro, in cui penso. Apro molto le finestre. Tanti caffè, sul balcone, a fissare i dirimpettai, il vuoto, qualsiasi cosa. Picco emotivo della giornata: ogni mattina, alla stessa ora, un giovane uomo parcheggia la sua bicicletta davanti al palazzo di fronte, si slaccia il casco, si leva i guanti, ripone la chiave della catena nello zaino, entra nello studio di architettura. Sempre gli stessi gesti. Se dimentica un gesto, sto male. Se arriva più tardi, sto male. Se salta un giorno, sto peggio.

Finisce così, riaprono i negozi, tante fanfare e tante mail: Nico vieni a trovarci, abbiamo un sacco di offerte, Nico dai, abbiamo riaperto hai capito?, abbigliamento ma per cosa, cose di casa ma per chi, smartphone ma perché. Riaprono i negozi e tutto il resto è chiuso, riaprono i negozi e altri esultano, riaprono i negozi e io ho dimenticato le facce degli altri. Che fanno, dove sono, che pensano.

Oggi finisce il secondo pallido lockdown, finisce ma non finisce, Parigi è sfregiata dalle violenze della polizia, inaudite, vergognose, il potere permette e condanna, l’osceno sta tutto in questo ossimoro, con una mano bastoni e con l’altra accarezzi, fino a quanto può durare?, e intanto da oggi il tempo e lo spazio si moltiplicano, un’ora per tre, un km per venti, questo è il saturimetro delle nostre libertà, va bene, possiamo anche imbrogliare, possiamo aggiungere altre ore e altri km, sperando di non essere beccati dalla polizia, che poi non sai come reagisci e magari ti ritrovi l’esercito in casa con le bombe a mano e la tua faccia tumefatta sulle prime pagine dei giornali, sì, altre ore e altri km, mi avvito nei calcoli e nelle mappe mentali senza uscita, finisce ma non finisce, dal setaccio sopravvive solo un’idea: camminare camminare e camminare, ma la verità è che non so proprio dove andare.

Lockdown, countdown

E dunque le ultime ore libere prima del Secondo Lockdown le passo sul marciapiede di rue Rennes, facendo una lunghissima fila di mezz’ora per entrare alla biblioteca Malraux e noleggiare libri e dvd prima della chiusura. Evidentemente ho sottovalutato il fatto che mezza rive gauche ha avuto lo stesso pensiero e così, mentre il cielo plumbeo precipita lentamente sulle nostre teste, e le genti spensierate nei bar fumano, bevono birre e mangiano fondant au chocolat, mentre un’umanità molto benestante esce dalle boutique di lusso con sacchi enormi di vestiti di marca da usare per sfilate clandestine nelle case enormi del sesto arrondissement in cui effettivamente ti devi annoiare parecchio, mentre un gruppo di ragazzi con lo skate in spalla mangia su una panchina involtini fritti che da lontano sembran cannoli siciliani, scatenando in me una tempesta di emozioni lu mare lu suli lu ientu (“praticamente hai avuto le allucinazioni” “Oh senti ognuno la vive come cazzo vuole ok?”), mentre su twitter l’ex primo ministro della Malesia sostiene che “i musulmani hanno il diritto di uccidere milioni di francesi”, mentre decine di macchine cariche di valigie ingolfano il traffico a dimostrazione che puoi pure avere i soldi e le terze case in Normandia dove passare l’isolamento ma l’effetto finale è sempre quello di Pippo Franco in quel film che ora non ricordo, mentre le persone passano e si stupiscono per questa curiosa serpentina (“Che succede?” “Niente, stiamo andando ad affittare libri perché a noi quando ci levano la libertà ci piace LEGGERE”),

finalmente riesco a entrare in biblioteca, salgo al piano dei dvd, scelgo un film di Carrère e due di Leos Carax, l’impiegata me li affida con gli occhi brillanti di chi approva ma allo stesso tempo deve fare il suo dovere (“Riconsegna il 26 novembre” “Lol, certo”), poi vado al piano Letteratura passando dal piano dei bambini apparecchiato per Halloween e il cuore mi si riduce a brandellini leggendo la scritta “Biblioteca infestata dai fantasmi”, e quando risbuco su rue Rennes la fila è ancora più lunga, e siccome non so che fare per riempire le ultime ore prima del Secondo Lockdown, decido di camminare camminare camminare fino a casa, imbocco rue Vaugirard

e mi torna in mente l’ultimo bagno fatto a settembre, la spiaggia era deserta e il mare agitato ma io ero comunque entrato in acqua, giusto per bagnarmi, ma la corrente mi aveva subito trascinato per un paio di metri dove in teoria avrei dovuto toccare ma in realtà i mulinelli avevano preso il controllo del mio corpo, e mentre mi dibattevo pensavo che era proprio un modo stupido di finire nel colonnino destro di Repubblica con i commenti indignati dei sovranisti, e così, a furia di bracciate violente e colpi di gambe ero riuscito a trovare un appiglio e alla fine uscire a grandi balzi senza che nessuno peraltro potesse ammirare la mia prodezza,

e svolto su rue de Sèvres, il cielo ormai è quasi ad altezza strada, tre ragazzini seduti a un tavolino di McDo giocano a carte, in un negozio di ottica un signore prova un paio di occhiali nuovi, penso a cosa mangiare nell’ultima sera libera e siccome non mi viene in mente niente decido di entrare al supermercato, incrocio una signora con due trolley pieni di provviste (“Madame, lei è così tanto Primo Lockdown”), prendo mezzo chilo di pessimi mandarini, vado al reparto formaggi e trovo due vecchietti, lei ha in mano una bottiglia di champagne, lui, dopo qualche esitazione, prende un Comté, le sussurra qualcosa all’orecchio che la fa molto ridere, poi si dirigono alle casse trascinando i piedi e facendo parecchio baccano, rimango a guardarli qualche istante, e quando infine esco all’aperto con lo zainetto pieno di libri, dvd e mandarini, penso che tutto sommato non fa poi così freddo, per essere a fine ottobre.