Non sono mai stato veramente in grado di capire dove la mia vita inizia e dove finisce. Nono sono mai, mai stato capace di dare un senso a tutto, di capire di cosa si tratta, cosa significa tutto questo. Così, quando ora ho iniziato a mettere tutti questi rulli di pellicola insieme, per giuntarli, la prima idea era di organizzarli in ordine cronologico. Ma poi ho rinunciato e ho cominciato a metterli insieme a caso, nell’ordine in cui li ho trovati sullo scaffale. Perché davvero non so quale sia la collocazione di ogni pezzo della mia vita. Quindi, lascia che sia, lascia che le cose procedano per puro caso, disordine. C’è un certo ordine in tutto ciò, un ordine tutto suo che io non comprendo veramente, così come non ho mai compreso la vita intorno a me, la vita reale, come la chiamano, né le persone reali, neanche loro ho mai capito. Ancora oggi non le comprendo, e non voglio veramente comprenderle.
Luis Buñuel, 1964 Sceneggiatura di Luis Buñuel e Julio Alejandro
Uomo: Gli uomini si perdono sempre in lotte fratricide, e sempre per la maledizione del tuo e del mio Simón: Di che parli? U: Perché l’uomo uccide per difendere quello che crede suo S: Non capisco… Cos’è il tuo? Cos’è il mio? U: Guarda, lo capirai. Questa borsa è tua vero? Ora vedrai, basterebbe che io lo negassi e cominceremmo subito a litigare. Su, proviamo. Simón, questa borsa è mia. Di’ che è tua, su avanti dillo S: (esita) È mia U: E io ti dico che è mia S: Allora prenditela -U: (ride) Il tuo disinteresse è ammirevole, e molto utile alla tua anima, ma ho paura che come la tua penitenza serve ben poco all’uomo S: Non ti capisco, parliamo linguaggi diversi, vai in pace fratello
Donna: Simón, a che pensi? Simón: A niente… Come si chiama questo ballo? D: (ride sguaiata): Carne radioattiva, questo è l’ultimo ballo, il ballo finale (si avvicina a Simón) Questo è il ballo finale S: Vade retro D: Vade ultra! S: Se ti diverti, io vado a casa D: Io non ci andrei, ti potrebbe capitare qualcosa S: Che cosa? D: È la vita ubriacone, devi sopportarla, devi sopportarla fino in fondo!
La donna si mette a ballare forsennata, Simón resta a guardare la folla che si dimena.
Louis Malle – 1981 Sceneggiatura di Wallace Shawn e André Gregory
Un film di quasi due ore in uno stesso luogo, un ristorante. Due personaggi che parlano, e parlano, per tutto il film. Personaggi che si chiamano come gli attori che li interpretano. E che firmano anche la sceneggiatura. Autori, attori, personaggi. Una cena, un’amicizia, due malinconie.
Non basterebbero centinaia di pagine per trascrivere questa sceneggiatura. Sono solo parole. Un esercizio di stile, una prouesse testuale che però è anche sostanza. Un monolite compatto che dal 1981 arriva a noi del futuro e del passato, e ci commuove per lo sguardo dritto, naïf, non mediato, non cinico che posa sulle cose e sulla vita.
L’incipit, il ristorante, il finale. C’est tout.
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Wallace cammina per le strade di New York.
Wallace: La vita di uno scrittore di teatro è dura, non è facile come pensano alcuni. È dura scrivere commedie che nessuno poi mette in scena. Si prova a fare altri lavori per guadagnarsi da vivere, io ho provato a fare l’attore ma la gente non ti assume e così si passano le giornate a fare commissioni varie. Stamattina mi sono dovuto svegliare alle 10 per fare delle telefonate importanti, sono andato in cartoleria a comprare alcune buste e poi ho fatto delle fotocopie. Avevo un mucchio di cose da fare. Alle 5 sono arrivato finalmente all’ufficio postale e ho spedito parecchie copie delle mie commedie continuando a controllare la mia segreteria telefonica per vedere se aveva telefonato il mio agente per offrirmi qualche particina. La mia cassetta della posta era piena di bollette ma che cosa potevo fare? Come potevo pagarle? Francamente non posso fare di più.
Vivo in questa città da quando sono nato. Sono cresciuto nell’Upper East Side e quando avevo 10 anni ero ricco, ero un aristocratico, andavo in giro in taxi, non avevo preoccupazioni, non pensavo che all’arte e alla musica. Ora ho 36 anni e penso soltanto ai soldi.
Alle 7 della sera il mio unico desiderio è di tornarmene a casa e farmi preparare una buona cenetta dalla mia dolce Debby. Negli ultimi anni, data la nostra situazione finanziaria, Debby è stata costretta a lavorare tre sere alla settimana come cameriera. Dopotutto qualcuno deve pur portare a casa un po’ di soldi e quindi devo fare da solo.
Sfortunatamente per una serie di circostanze ho dovuto accettare di andare a cena con una persona che da anni cerco di evitare. Si chiama André Gregory. Per un certo periodo è stato il mio migliore amico e anche il mio più valido collega in teatro; infatti, è lui che mi ha scoperto e che ha messo in scena una delle mie commedie. Quando lo conobbi André era all’apice della sua carriera di regista teatrale. Il lavoro sorprendente che aveva fatto con la sua compagnia, la Manhattan Project, aveva sbalordito il pubblico di tutto il mondo. Ma poi gli era successo qualcosa, aveva abbandonato il teatro. Era più o meno scomparso. Per mesi la sua famiglia sapeva soltanto che era in viaggio in qualche paese sperduto come il Tibet e questo era strano perché amava molto sua moglie e i suoi figli e non gli piaceva affatto stare lontano da casa. Oppure si veniva a sapere che qualcuno lo aveva incontrato a una festa mentre raccontava alla gente che sapeva parlare con gli alberi e cose simili. Chiaramente era successo qualcosa di terribile ad André.
L’idea di rivederlo mi innervosiva moltissimo. Proprio non mi sentivo adatto a questo genere di cose. Avevo i miei problemi, non potevo essere di aiuto ad André. Non facevo mica il medico no?
Wallace arriva al ristorante. Inizia la cena.
Wally e André iniziano a parlare.
André: va bene sì, siamo annoiati siamo tutti annoiati adesso, ma hai mai pensato, Wally, che il processo che genera questa noia in tutti quanti noi oggi potrebbe essere una forma auto riproducente ed inconscia di lavaggio del cervello creata da un governo totalitario mondiale basato sul denaro? E che tutto questo è molto più pericoloso di quanto si creda e che non è solo una questione di sopravvivenza individuale ma che qualcuno che si annoia è addormentato e chi è addormentato non dice di no? Gente così se ne vede continuamente. Ecco pochi giorni fa ho incontrato una persona che ammiro molto, un fisico svedese. Mi diceva che ormai non guarda più la televisione e che non legge più niente né giornali né riviste, si è completamente estraniato da tutto, perché è convinto che noi oggi stiamo vivendo in una specie di incubo alla Orwell e che tutto quello che sentiamo contribuisce a trasformarti in robot.
Vedi, secondo me è possibile che gli anni 60 siano stati l’ultimo empito del genere umano prima che si estinguesse e che questo è l’inizio del resto del nostro futuro che d’ora in poi non ci saranno altro che questi robot che vanno in giro senza sentir niente, senza pensare niente.
Non so non so cosa succede a te, Wally, ma io ho dovuto seguire un corso di addestramento per diventare un essere umano. Cosa provavo in quel momento non lo so, quali cose mi piacevano, che genere di persone desideravo veramente frequentare, e l’unico modo per saperlo era far smettere ogni rumore esterno, smettere di recitare per poter ascoltare quello che c’era dentro di me. Arriva il momento che si ha bisogno di fare questo, c’è gente che probabilmente ha bisogno di andare nel Sahara, chi può farlo a casa propria, ma hai bisogno di far tacere il rumore.
La gente secondo me si aggrappa a queste immagini di padre, madre, marito moglie sempre per lo stesso motivo, perché sembra che forniscano un terreno ben solido. Ma cosa significa? Non c’è moglie o figlio o marito. Chi sono? Un bambino ti afferra la mano ed a un tratto un uomo grande e grosso ti solleva da terra e poi scompare. Dov’è quel figlio?
(Qui è dove un pezzo di me si è staccato e non è più tornato)
La cena è finita.
Wally: Tutti gli altri clienti erano andati via da ore. Ci hanno portato il conto e André ha pagato la cena. Mi sono offerto un taxi, sono tornato a casa passando per le strade della città. Non c’era strada, non c’era negozio che non fossero collegati a qualche ricordo nella mia mente. Là avevo comprato un vestito con mio padre, là andavo a prendere il gelato dopo la scuola. Quando finalmente sono arrivato a casa, Debby era tornata dal lavoro e le ho raccontato tutto della mia cena con André.
Cencio (Alberto Sordi) è a Regina Coeli. Un giorno sua madre e Cesira (Sylva Koscina), una ragazza di cui è innamorato, vanno a trovarlo. Anche il fratello di Cesira è in galera.
Dopo i saluti di rito Cesira chiede a Cencio: Ma mio fratello non viene?
Cencio: Eh no, l’hanno trasferito al carcere di Civitavecchia, non lo sapevi?
Cesira: No…
Cencio: E come no? Non s’è voluto fare il vaccino. C’hanno fatto il vaccino, ma’
Madre: E perché v’hanno fatto il vaccino?
Cencio: Dice che fuori c’è l’asiatica, non vuole uscire più nessuno… Forse tra poco ci sarà un’amnistia e allora… (si interrompe, guarda Cesira con occhi innamorati) Cesi’ ma quanto sei bbbella
In questi giorni ho rivisto il ciclo dei cinque film di Antoine Doinel. Ri-colpo di fulmine per Baisers Volés (Baci rubati, 1968). A parte l’amore inesauribile per Jean-Pierre Léaud, a parte lo splendore di Delphine Seyrig e la sorpresa di ritrovarci un già imponente Michel Lonsdale, due cose più di tutte mi hanno colpito:
1) La caserma in cui si trova all’inizio del film Antoine è a pochi minuti a piedi da casa mia. Così l’altro giorno sono andato a scattare una foto il più possibile vicina all’originale. Tutto uguale, come spesso capita a Parigi, tranne il semaforo, che all’epoca non c’era. In realtà, per mettermi davvero nei panni di FT, avrei dovuto bussare a un citofono del palazzo di fronte, salire all’ultimo piano e scattare la foto dall’alto. Il problema è che a Parigi non esistono i citofoni.
2) A un certo punto Antoine va a lavorare in un’agenzia investigativa. Un giorno scoppia una bagarre tra un cliente e tutti gli impiegati. Una di loro va a chiamare un dentista del piano di sopra per farsi aiutare (la segretaria apre la porta dello studio portando degli occhiali da sole, tf). Il dentista arriva e molla due ceffoni al cliente. Segue molta confusione ma soprattutto questo: Jean-Pierre Léaud inciampa, cade (nel frame in alto si vede l’inizio del volo) e scompare dall’inquadratura. L’attore che interpreta il dentista lo vede cadere (fuori scena) e si mette a ridere. La scena poi prosegue senza più traccia di Antoine. Basta questo per spiegare perché da giorni non faccio altro che risistemarmi il ciuffo che peraltro non ho, come Antoine? Io dico proprio di sì.
E adesso torno ad ascoltare Que reste-t-il de nos amours, per il resto dei miei giorni.
Quando arrivai a Parigi, mi sembrò subito di essere nel paese dei balocchi grazie a una piccola tessera plastificata di 8×5 cm: per una ventina di euro al mese potevo andare al cinema tutte le volte che volevo. E quando dico tutte è: tutte. Ci sono molti modi per imparare a conoscere una città, uno dei miei è stato entrare in sale da dieci posti, da cinquecento, in periferia, in centro, sale di prime e seconde e terze visioni, sale con cinefili, sale con psicopatici, sale con Louis Garrel tra gli spettatori.
La smetto subito con la retorica di quanto è bello andare al cinema però si è capito: l’anno scorso sono tornato ai livelli di quando ancora non avevo scoperto l’Aurora di Tommaso Natale. Una pena. Solo quattro volte, me le ricordo tutte. Due a Parigi a gennaio. Una a Milano sempre a gennaio, in occasione dell’ultima cosa pazza fatta in vita mia: all’Odeon (o era l’Orfeo?) ho visto Hammamet di Amelio chiedendomi come si potessero tenere assieme la migliore interpretazione di Favino della sua carriera (nel senso che non ti viene mai da chiedergli: Favino ti levi per favore?), e la peggiore performance della storia del cinema di tutti i tempi (l’altro, coso, il co-starring). L’ultima volta a Palermo, un giorno uggioso di settembre: al Rouge et Noir (dove sennò?) ho visto Le sorelle Macaluso di Emma Dante. In sala c’erano due mamme con cinque bambini (che durante il film correvano indisturbati per la sala) e alla fine del film una delle due donne disse: Che pesante, mi aspettavo più risate. Io la guardai, la odiai, dissi: Madame, le cinéma n’est pas un parco giochi, la honte! E me ne tornai su via Maqueda, sdegnatissimo.
Dice: e che hai fatto in tutto il tempo che non sei andato al cinema? Ho visto altri film, tanti film. Piattaforme, streaming. Ma anche diversi festival che altrimenti mi sarei perso: Annecy, Torino, Divergenti. Ho compensato il dolore dello schermo piccolo e obbligatorio (esempio: sarebbe stato meglio vedere Days di Tsai Ming-Liang in sala? Risposta: CHE DOMANDE) (ok, sono una di QUELLE persone che scassa il cazzo con l’odore della carta, spegni quel telefono, dove andremo a finire) (ma leggo anche su kindle e sono abbonato a Mubi) con la scoperta random di gente sconosciuta, o la riscoperta di classici mai visti, o la re-visione completa dei miei confort-film, nei giorni più cupi.
Ho smesso di fare bilanci quando hanno chiuso splinder e un’orda di dilettanti è arrivata alle porte della città, ma stavolta mi pareva giusto fare un’eccezione. I tre film a cui ho pensato e ripensato, senza sosta, sono: Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman (la scena del bacio, quelle mani; la scena del karaoke con gli amatissimi A Flock of Seagulls); Sin señas particulares di Fernanda Valadez (la scena della rivelazione finale; il fuoco; la testa che va a Ma’Rosa di Brillante Mendoza); Ema di Pablo Larraín (ancora il fuoco; Mariana Di Girolamo, qualsiasi cosa faccia Mariana Di Girolamo, ho già detto Mariana Di Girolamo?).
Tra le serie, cito quelle che mi hanno influenzato per le cose che penso, scrivo, faccio, per il mio lavoro e non solo: l’ultima stagione di BoJack Horseman, il solo, unico, vero capolavoro della piattaforma che non voglio manco nominare (e sempre grazie a A., che ha dovuto convincermi a guardarla anni fa, io così scettico; e ora invece indosso una maglietta del mio amico Mr. Peanutbutter, oh oh oh); la prima stagione di Industry(BBC2/HBO), sottovalutata all’inizio per lo specchietto trito del sesso e del full-frontal e invece interessante e divertente declinazione dell’intersezione Potere/Denaro/Umiliazione (con una colonna sonora che avrei voluto impilare io, io, io; e un Harry Lawtey da cui vorrei prendere lezioni di danza); la prima stagione di We are who we are (HBO), serie sgummata e sbilenca, ma che non assomiglia a niente di già visto (qualcosa vorrà dire)(oh, quanto avrei dato per essere nella writer’s room con Guadagnino, Giordano e Manieri); e poi le tre stagioni di High Maintenance (HBO, 2016–2019) che, viste da questa parte della barricata, dicono parecchio su cosa e come eravamo, noi come occidentali con i nostri problemi da primo mondo viziato e dolcissimo. Curioso di scoprire cosa verrà, dopo.
La morte di Valéry Giscard d’Estaing ha riportato l’attenzione su un film documentario di Raymond Depardon sulla campagna presidenziale di Giscard. Il film si chiama “1974, une partie de campagne” e ha una storia pazzesca.
Nel 1974, durante un volo aereo, Giscard e Depardon iniziano a discutere di un possibile progetto assieme. Depardon gli propone di seguire il modello di “Primary”, un film di Richard Leacock del 1960 sulla campagna di John Fitzgerald Kennedy. Giscard nicchia, chiede prima un preventivo al giovane Depardon ma alla fine accetta. Depardon inizia a seguirlo ovunque, spesso con la macchina da presa in spalla. Du jamais vu.
Depardon vuole filmare “la vérité des choses cachées”, alla Wiseman. Giscard sta al gioco, ma non sa ancora cosa lo aspetta. Depardon infatti privilegia il Giscard del quotidiano: mentre guida la sua utilitaria, mentre si pettina in continuazione i capelli (sua vera ossessione), mentre beve una pinta di birra. Soprattutto, coglie la solitudine dell’uomo e del politico: la scena di Giscard che scopre, da solo, di aver vinto di un soffio le elezioni, è magnifica. In quel momento, davanti alla tv nell’ufficio del Palais du Louvre, ci sono solo loro due. Depardon non fa nulla per nascondere la sua presenza con movimenti continui della macchina da presa, Giscard rimane impassibile. Anni dopo dirà il regista: “C’est lui qui a mis en scène ce moment. C’était un grand acteur, un séducteur, un manipulateur”.
Una volta eletto, Giscard visiona il film a più riprese e, a più riprese, ne impedisce la diffusione. Lo giudica un film “violento”, non gli piace, non è soddisfatto dell’immagine che veicola. Ha paura di quella realtà filmica che gli è sfuggita di mano. Il cinema ha preso il sopravvento. Evidentemente Giscard ha intuito i mutamenti in atto nel rapporto tra politica e immagine, ma ancora non è pronto ad accettarli. Depardon dirà che il vero problema per Giscard era il suono in presa diretta. Qualcosa di rivoluzionario, per la politica dell’epoca, abituata alle inquadratura fisse da lontano e alle musiche aggiunte in montaggio.Sta di fatto che il film rimane bloccato, e ben presto acquisisce la fama di film “censurato”. Depardon, accusato per anni di essere stato troppo “giscardien”, di essersi “venduto” (il collega William Klein gli toglie addirittura il saluto), improvvisamente viene rivalutato a sinistra e prosegue la sua carriera di cineasta.Il film esce infine nel 2002, 28 anni dopo. Al momento della diffusione stampa e pubblico rimangono sorpresi. Il film non presenta alcun elemento di “violenza” o di sconvenienza, come era lecito aspettarsi. Giscard non darà mai spiegazioni, la sua ostinazione rimarrà sempre incomprensibile. “1974, une partie de campagne” è un documento prezioso, in anticipo sui tempi. Riesce a fotografare un’epoca di mezzo, come solo certo cinema può fare. Ancora oggi Depardon lo ritiene il suo film migliore.
In attesa di guardare sulla piattaforma-che-non-voglio-manco-nominare il film di Fincher, da bravo secchione ho ripassato Citizen Kane. Ulteriore conferma di ciò che sospettavamo: OW sapeva parecchie cose.
The boys in the band è un film del 1970 diretto da William Friedkin (L’esorcista, Cruising). La sceneggiatura è basata sulla pièce teatrale di Mart Crowley del 1968. Prima di Stonewall, prima di tutto. Agli attori, bravi e coraggiosi, dobbiamo parecchio. Molti di loro morirono di Aids nell’indifferenza generale. Questo fu il loro unico ruolo di successo, se di successo possiamo parlare.
C’è una storia legata a questo film che ogni volta che la leggo mi riduce a brandellini: il personaggio di Emory era interpretato da Cliff Gorman, che nella vita era etero. Gorman rimase molto amico di Robert La Tourneaux, l’attore che interpretava il “regalo” di compleanno per Harold. Quando La Tourneaux si ammalò di Aids, Gorman e sua moglie si presero cura di lui fino alla morte.
Gorman è il primo da sinistra, La Tourneaux quello seduto in basso.
A volte penso che se oggi possiamo spararci i selfie mezzi nudi mentre ci lecchiamo le ascelle in mezzo alle piante con Lana del Rey in sottofondo e poi condividiamo tutto sui social senza pudor né verguenza, beh, un pezzo di merito va anche a gente come questa, che accettò stigma e disapprovazione pur di recitare un testo così bello.
Perché Mart Crowley scrisse un testo incredibile, che merita di essere letto, riletto, visto e rivisto. La cognizione è di causa. Due anni fa sono andato *apposta* a New York per vedere lo spettacolo teatrale revival. Fuori faceva caldissimo, era estate. Dentro faceva freddissimo (è New York, lo spreco di risorse, di cibo, di aria) ma non ce ne accorgemmo perché 1) Jim Parsons fu bravissimo nel ruolo del protagonista Michael e 2) Matt Bomer si fece la doccia in scena (ne scrissi qui ai tempi).
E adesso quello scaltrone di Ryan Murphy ha prodotto anche il film-revival, disponibile su Netflix. Non amo Murphy e non amo Netflix, questo film non aggiunge nulla all’originale, di cui è praticamente una pallida cover con una regia modesta e delle scelte persino più conservatrici e melodrammatiche dell’originale. Ma Jim Parsons è sempre eccellente, Zachary Quinto è sempre un gran pezzo di istrione, e Matt Bomer è ancora più nudo. E soprattutto, allegato al film (da cercare nel catalogo ottuso di Netflix) c’è la cosa migliore di questo remake: il bonus di mezz’ora girato nel 2019 e dedicato a Mart Crowley, al suo talento, alla sua ironia. Mart Crowley è morto nel marzo 2020.