Una specie di bilancio

E persino una città come Parigi, ossessionata dalle facciate pulite, no panni stesi, no antenne, no balconi, no niente, quest’anno si è lasciata un po’ andare. Alcune scritte sono rimaste più a lungo, il presunto decoro poteva attendere o, semplicemente, anche i censori erano esausti.C’è l’ancien monde all’esterno di una banca, nei giorni delle proteste, quando la paralisi generale dello scorso inverno ci pareva il problema più grande; c’è l’immonde d’après di uno dei miei posti preferiti della città, poco dietro l’amatissima libreria Le Monte-en-l’air dell’amatissima Ménilmontant; c’è la prima immagine dopo tre settimane consecutive di casa, il lenzuolo con la proposta di matrimonio all’immaginiamo bel Jeremy; c’è la rivendicazione di essere qui je suis lasciata così, sul marciapiede, fatene quel che volete, i fondamentali.E poi. C’è il saluto dei marinai palermitani nei giorni del Festino, il primo Festino senza il Festino, raffinata figura retorica che, mi piace pensare così, sapeva di esserlo; e c’è l’afasia di quei giorni di settembre, davanti a quelle lettere scomparse, o dimenticate. Gentilezza e atti di bellezza. Un imperativo sospeso nel vuoto, cliffhanger sugli orrori moltiplicati dell’ultimo biennio: l’unico rimpianto è non essere tornato in quella traversa di via Roma con i secchi di vernice bianca e un grande pennello. Chissà, magari sono ancora in tempo, a Palermo si è sempre in tempo.

La bottiglia di aranciata

Pomeriggio d’estate, la stagione che stavolta deve solo far uscire i pensieri senza altri pensieri, sto guidando senza meta su una statale siciliana, direzione il mare, uno qualunque. La strada è sgombra, a sinistra il nulla, a destra il nulla, ogni tanto una macchina, ogni tanto un cartello, ogni tanto una rotatoria cervellotica. Volendo descrivere questo territorio che ha regalato alcuni tra i più importanti scrittori del Novecento, siciliano, italiano, europeo: ogni cosa è arida, ogni cosa è accesa dal sole e bruciata dall’uomo, ogni cosa è rallentata dalla minaccia della terra che si fa acqua e allora perché continuare a costruire questo ponte, lasciamolo così, a metà costruito, a metà sospirato. Soprattutto: ogni cosa è aggrovigliata, senza logica, senza costrutto, sensi unici sensi doppi sensi tripli, come per dispetto, come a dire dal labirinto non si esce, inutile che ti agiti, qua stiamo e qua staremo. Ma poi, e lo sai solo poi, le promesse si avverano,

e allora dalla statale svoltiamo a destra all’ultimo istante utile, il cartello blu con la freccia è già un ricordo, entriamo a S., questo paesino non previsto che prima era solo un suono e ora invece parcheggiamo nella piazzetta principale, sotto un monumento ai caduti della guerra, nomi, cognomi, date di nascita, date di morte. Cosa ti aspetti da un paesino siciliano, un pomeriggio d’estate: case basse, fiat panda e fiat ritmo, manifesti elettorali scoloriti, un gruppo di vecchi seduti su un muretto all’ombra, adolescenti che sgasano sui motorini, ridono, un bar deserto, un ragazzo e una ragazza, sistemano le sedie e spazzano per terra, dagli enormi amplificatori Be my lover e Freed from desire stordiscono il tempo sospeso degli anni che non lasceremo mai andare via. Cosa non ti aspetti da un paesino siciliano, un pomeriggio d’estate: questa è la facciata, la conferma dei luoghi non a caso comuni, ma la parte migliore è sempre dietro, le quinte che non sai cosa ti riservano, e poi, solo poi, le promesse che si avverano. Vicoli, scale, uno spiazzo, una vallata che parte da qui e finisce là, silenzio. Siamo due e siamo gli ultimi su questa terra, non è più Sicilia, è sempre e solo Sicilia. Ruotiamo su noi stessi, le uniche tracce umane: secchi rovesciati, muri stinti, piante secche, la porta aperta di una vecchia casa, abbandonata. Sembra che chiunque sia scappato all’improvviso, gli invasori, o qualcosa del genere. Cercate la chiesa?,

dal nulla, una voce, dall’alto, alle mie spalle. Mi volto, alzo gli occhi, metto le mani a visiera. Una donna, anziana, sta dando da bere alle piante del suo balcone. Esito, non stiamo cercando la chiesa, ma la donna, con il suo sorriso, mi convince che Sì, signora, stiamo cercando la chiesa. Lei poggia l’annaffiatoio verde, asciuga le mani sul grembiule, prende un gran bel respiro e spiega come arrivarci, A quest’ora è chiusa ma voi provate a bussare lo stesso. Siete turisti? Turisti no, stranieri un po’ sì, Palermo, Genova, Parigi. Parigi?, il volto della signora si illumina ancora di più, Ma io parlo francese, ho vissuto in Svizzera tanti anni, Voulez-vous quelque chose à boire?, sorridiamo, lei dice aspettate che scendo giù, così è brutto parlare, fate il giro della casa che stiamo più comodi. Obbediamo, facciamo il giro,

e lei è già lì, ci viene incontro con una bottiglia da mezzo litro di un’aranciata: ecco, è per voi, la tengo in frigo per i turisti che cercano la chiesa. Mi porge la bottiglia, questa donna sbucata dal nulla, i capelli lunghi e imperfetti, i segni di un’età che va avanti da troppo tempo, i suoi occhi piantati nei miei, prendo la bottiglia, come fosse la staffetta di chissà quale segreto che custodirò almeno per il resto di questo pomeriggio: si chiama Maria, negli anni ’70 è emigrata in Svizzera e ha vissuto parecchi anni in questa città che si chiama, si chiama, aspettate, e questo suo gesto di schermirsi, mettendo la mano davanti agli occhi mi ammazza, mi ammazza, questo anno disgraziato, e le sofferenze, e il buco nero di aprile, e ora una sconosciuta mi riduce a pezzettini, io e la mia bottiglia di aranciata tra le mani, Maria che ci chiede scusa per non ricordarsi il nome della città, Maria che ci dà del tu, e noi pure, e iniziamo il gioco delle città svizzere, lei dice Locarno, ma poi si corregge No Locarno no, allora io dico Lucerna!, e lei dice No Lucerna no, forse Locarno, sì è Locarno, e io dico Sì sarà Locarno, e lei dice Lavoravo in una fabbrica di sigarette, facevo le sigarette, e io dico Le sigarette, e lei dice Quanto mi piaceva parlare francese, c’est ça, c’est ça, e noi diciamo Oui oui, e lei dice Oh quelle belle langue, quanto mi piaceva parlare francese, e poi dice Ma poi mio marito è voluto tornare qua, io non volevo, io volevo stare lì, in Svizzera, però è rimasto un mio cugino che ha aperto un ristorante da tanti anni, ah!, sapete chi va a mangiare al ristorante di mio cugino?, noi diciamo Chi?, lei dice Mina, la cantante!, io dico Allora la città è Lugano!, lei si illumina e dice Sì Lugano!, e si schermisce ancora e ancora, come a scusarsi di non aver trovato lei il nome giusto, e io stringo forte la bottiglia di aranciata, e lei dice ma che stavo dicendo?,

e io dico Le sigarette?, lei dice No no no, ah sì, sapete, quest’anno ho fatto ottant’anni, e una mattina ero qua a casa, davo da bere alle piante, squilla il telefono, è mio cugino dalla Svizzera che mi fa gli auguri e mi dice Ora ti passo una persona che ti fa gli auguri pure lei, e Maria scoppia a ridere e la racconta come se fosse adesso, l’incredulità, e noi capiamo e diciamo in coro Non è vero!, e lei dice Sì era la Mina!, così, con l’articolo determinativo, la Mina!, e ridiamo, la Mina!, ridiamo e ridiamo, siamo tre e siamo bellissimi mentre lei dice Sapete io e la Mina siamo gemelle, anche lei ha fatto ottant’anni quest’anno, io gliel’avevo detto a mio cugino di dirglielo che eravamo gemelle, ragazzi miei la Mina al telefono non potevo crederci, mi mandava i bacini alla cornetta e dicevo Mina ciao Mina, che bella che sei Mina,

e Maria racconta racconta e racconta, e io la ascolto e vorrei abbracciarla ma non si può, Maria che parla di suo marito che non c’è più, di sua figlia che non viene mai a trovarla perché deve lavorare, Maria che dice che questa casa da sola non sa che farsene, Maria che dice Vi ho visti che cercavate la chiesa e vi ho chiamati, io conservo sempre qualcosa in frigo per i turisti che cercano la chiesa, e io dico Fai bene Maria, e lei dice Restate fino a stasera? C’è la processione, c’è un sacco di gente, forse viene anche mia figlia, e io stringo forte la bottiglia di aranciata, e dico No, dobbiamo andare, grazie Maria, ciao Maria, t’es belle Maria, au revoir Maria, e torniamo sui nostri passi, gli scalini, lo spiazzo, e in un attimo siamo dentro il futuro, il futuro, la statale, direzione il mare, uno qualunque, un pomeriggio d’estate di un anno non come gli altri, e se mi volto adesso Maria è ancora lì, sulla porta di casa, ci saluta con la mano, e io agito in aria la bottiglia di aranciata, Ciao Maria, merci Maria, la prossima volta parliamo solo in francese, promesso.

Ogni giorno, verso le 15

Ho scoperto che in un punto preciso di casa mia, tra la porta della camera e la porta dello studio, ogni giorno verso le 15, posso sentire qualcuno che suona un pianoforte. Ho fatto le prove in altri punti della casa, niente. Solo lì, in quel punto tra la camera e lo studio, per un curioso fenomeno di propagazione del suono, sento questa persona. Non si trova al piano di sopra, perché la musica arriva come attraverso un blocco di ovatta. Potrebbe essere due piani più su. Non ne ho idea. E non ho idea di chi possa essere, è un condominio di borghese riservatezza. So però che questa persona non è alle prime armi: non si interrompe mai. E so anche un’altra cosa, perché niente come certa musica che ti coglie senza difese può scatenare l’immaginazione: la ascolto, e mi viene in mente una ragazza, sulla ventina, la vedo di spalle, ha i capelli lunghi. Ecco finalmente una piccola cosa bella: ogni giorno, verso le 15, interrompo quello che sto facendo, mi metto nel punto preciso tra la camera e lo studio, mi appoggio al muro con le mani dietro la schiena, e per qualche minuto tutto si placa, mentre ascolto la ragazza sulla ventina, i capelli lunghi, che suona il pianoforte solo per me.

La briochette au chocolat blanc

Quando penso ai vaccini mi vengono in mente due cose, a volte una a volte l’altra. La prima sono i segni sul braccio dei miei genitori e dei miei zii e di tutti gli adulti e io, bambino negazionista incosciente, dicevo che schifo io non le voglio quelle cicatrici, ma siccome non sapevo ancora cosa fossero i vaccini, eppure già rifiutandoli, forse era solo che non volevo diventare adulto e vaccinato e restare bambino e frignone per sempre.

La seconda è che ai tempi dell’università avevo un amico che si vaccinava sempre contro l’influenza e io gli dicevo Me pari un vecchio ma che ti vaccini a fare siamo giovani ma che ci deve succedere e lui si toccava i coglioni e dava pure un colpetto di tosse già che c’era e poi andavamo a fare lezione con Maurizio Costanzo e Laura Freddi e io lo sfottevo da lontano facendo l’imitazione di un vecchio.

Parlo di vaccini perché l’altro giorno finalmente ho fatto il vaccino (“HAI FATTO IL VACCINO PER IL COVID?” “No, papà, per l’influenza, vivo in Francia, non in Russia, ricordi?”). Dopo settimane di muri sbattuti (“Monsieur Morabito, il vaccino lo diamo prima alle persone anziane” “Ma io sono anziano, vecchio, vecchissimo, faccio i meme su Orson Welles” “No monsieur Morabito, lei è giovanissimo, ed è anche in perfetta forma a quanto vedo” “Oh grazie”), finalmente hanno aperto a tutti la possibilità di vaccinarsi.

Così sono andato in questo centro di vaccini vicino casa mia dove ti fanno il vaccino gratis. Ho suonato al citofono del centro vaccini, sono entrato, ho parlato con la tipa dei vaccini all’accueil (“Monsieur Morabito, lei ha un cognome così bello, così facile da scrivere, non capita tutti i giorni” “Lo so, signora, LO SO”) e mi sono seduto ad aspettare nella sala d’aspetto dei vaccini. Ho guardato i poster sui vaccini ai muri, la gente che usciva con questo senso del drama tenendosi il braccio come se avesse fatto il fronte nel ’15-’18 e ho pensato Pensa se entra qua dentro un negazionista antivaccinista, esplode senza manco capirci niente. Poi ho pensato ai segni sul braccio degli adulti quando ero bambino e al mio amico che si toccava i coglioni ogni volta che a ottobre arrivavano i primi venticelli freschi e poi qualcuno ha fatto il mio nome.

Mentre alzavo la manica del maglione la dottoressa mi ha chiesto: lei è allergico al pollo? Ho fatto la faccia Aubrey Plaza e ho detto AL POLLO? Lei l’ha preso per un no e ha rilanciato: e all’uovo? Io ho guardato la segretaria che in un angolo della stanza stava stenografando i nostri dialoghi (“Ma perché nell’angolo della stanza dei vaccini c’è una persona che stenografa i nostri dialoghi?”) cercando un sostegno non dico amichevole ma proprio umano ma quella ha scrollato le spalle tipo Ah beh non guardare me e ha ricominciato a battere sui tasti mentre la dottoressa diceva No perché questo vaccino è stato fatto con il pollo e con l’uovo. Io ho pensato Meno male che sono flexitariano sennò qua finiva veramente a schifìo, poi ho detto No, sono solo allergico alla polvere ho fatto le prove allergiche una volta a Roma questo vaccino non è mica fatto con la polvere?, e a posteriori credo che qui la dottoressa abbia deciso di togliermi il saluto, perché da quel momento non mi ha più degnato di uno sguardo, mi ha fatto la puntura e mi ha solo detto Aspetti cinque minuti in sala d’attesa per sicurezza e poi vada via.

Mentre tornavo a casa a piedi, pensando al mio amico dell’università, a Laura Freddi, a mia nonna, alle cicatrici sul braccio di mio zio quando andavamo al mare tutti assieme a Scopello, ho preso una traversa a caso e ho visto una boulangerie che non avevo mai notato prima della pandemia. Sono entrato, ho chiesto alla panettiera Ma siete nuovi?, lei mi ha detto Bonjour, ho detto Vorrei questa briochette au chocolat blanc e lei ha detto Ma lei abita nel quartiere?, poi sono uscito e mentre mangiavo la briochette au chocolat blanc ho pensato Questa briochette au chocolat blanc è la migliore briochette au chocolat blanc che abbia mai mangiato, se non fossi andato a farmi il vaccino non l’avrei scoperta, certo che la vita è proprio buffa.

Finisce ma non finisce

Un mese di pallido lockdown, passato così. Così. Tanto lavorato e poco dormito, va bene. Un mese di pallido lockdown, cioè: fuori casa ore d’aria, baguette e spese non proprio bio, dentro casa ore allo schermo, cervicali e cuffie che lasciano il segno sul cranio. Un mese di lockdown, al rallentatore. Ho dimenticato le facce delle persone, facce amiche e facce conoscenti. Che fanno, dove sono, che pensano.

Routine, moltiplicata all’infinito. Alleno il mio corpo nello spazio in cui mangio, in cui lavoro, in cui penso. Apro molto le finestre. Tanti caffè, sul balcone, a fissare i dirimpettai, il vuoto, qualsiasi cosa. Picco emotivo della giornata: ogni mattina, alla stessa ora, un giovane uomo parcheggia la sua bicicletta davanti al palazzo di fronte, si slaccia il casco, si leva i guanti, ripone la chiave della catena nello zaino, entra nello studio di architettura. Sempre gli stessi gesti. Se dimentica un gesto, sto male. Se arriva più tardi, sto male. Se salta un giorno, sto peggio.

Finisce così, riaprono i negozi, tante fanfare e tante mail: Nico vieni a trovarci, abbiamo un sacco di offerte, Nico dai, abbiamo riaperto hai capito?, abbigliamento ma per cosa, cose di casa ma per chi, smartphone ma perché. Riaprono i negozi e tutto il resto è chiuso, riaprono i negozi e altri esultano, riaprono i negozi e io ho dimenticato le facce degli altri. Che fanno, dove sono, che pensano.

Oggi finisce il secondo pallido lockdown, finisce ma non finisce, Parigi è sfregiata dalle violenze della polizia, inaudite, vergognose, il potere permette e condanna, l’osceno sta tutto in questo ossimoro, con una mano bastoni e con l’altra accarezzi, fino a quanto può durare?, e intanto da oggi il tempo e lo spazio si moltiplicano, un’ora per tre, un km per venti, questo è il saturimetro delle nostre libertà, va bene, possiamo anche imbrogliare, possiamo aggiungere altre ore e altri km, sperando di non essere beccati dalla polizia, che poi non sai come reagisci e magari ti ritrovi l’esercito in casa con le bombe a mano e la tua faccia tumefatta sulle prime pagine dei giornali, sì, altre ore e altri km, mi avvito nei calcoli e nelle mappe mentali senza uscita, finisce ma non finisce, dal setaccio sopravvive solo un’idea: camminare camminare e camminare, ma la verità è che non so proprio dove andare.

Lockdown, countdown

E dunque le ultime ore libere prima del Secondo Lockdown le passo sul marciapiede di rue Rennes, facendo una lunghissima fila di mezz’ora per entrare alla biblioteca Malraux e noleggiare libri e dvd prima della chiusura. Evidentemente ho sottovalutato il fatto che mezza rive gauche ha avuto lo stesso pensiero e così, mentre il cielo plumbeo precipita lentamente sulle nostre teste, e le genti spensierate nei bar fumano, bevono birre e mangiano fondant au chocolat, mentre un’umanità molto benestante esce dalle boutique di lusso con sacchi enormi di vestiti di marca da usare per sfilate clandestine nelle case enormi del sesto arrondissement in cui effettivamente ti devi annoiare parecchio, mentre un gruppo di ragazzi con lo skate in spalla mangia su una panchina involtini fritti che da lontano sembran cannoli siciliani, scatenando in me una tempesta di emozioni lu mare lu suli lu ientu (“praticamente hai avuto le allucinazioni” “Oh senti ognuno la vive come cazzo vuole ok?”), mentre su twitter l’ex primo ministro della Malesia sostiene che “i musulmani hanno il diritto di uccidere milioni di francesi”, mentre decine di macchine cariche di valigie ingolfano il traffico a dimostrazione che puoi pure avere i soldi e le terze case in Normandia dove passare l’isolamento ma l’effetto finale è sempre quello di Pippo Franco in quel film che ora non ricordo, mentre le persone passano e si stupiscono per questa curiosa serpentina (“Che succede?” “Niente, stiamo andando ad affittare libri perché a noi quando ci levano la libertà ci piace LEGGERE”),

finalmente riesco a entrare in biblioteca, salgo al piano dei dvd, scelgo un film di Carrère e due di Leos Carax, l’impiegata me li affida con gli occhi brillanti di chi approva ma allo stesso tempo deve fare il suo dovere (“Riconsegna il 26 novembre” “Lol, certo”), poi vado al piano Letteratura passando dal piano dei bambini apparecchiato per Halloween e il cuore mi si riduce a brandellini leggendo la scritta “Biblioteca infestata dai fantasmi”, e quando risbuco su rue Rennes la fila è ancora più lunga, e siccome non so che fare per riempire le ultime ore prima del Secondo Lockdown, decido di camminare camminare camminare fino a casa, imbocco rue Vaugirard

e mi torna in mente l’ultimo bagno fatto a settembre, la spiaggia era deserta e il mare agitato ma io ero comunque entrato in acqua, giusto per bagnarmi, ma la corrente mi aveva subito trascinato per un paio di metri dove in teoria avrei dovuto toccare ma in realtà i mulinelli avevano preso il controllo del mio corpo, e mentre mi dibattevo pensavo che era proprio un modo stupido di finire nel colonnino destro di Repubblica con i commenti indignati dei sovranisti, e così, a furia di bracciate violente e colpi di gambe ero riuscito a trovare un appiglio e alla fine uscire a grandi balzi senza che nessuno peraltro potesse ammirare la mia prodezza,

e svolto su rue de Sèvres, il cielo ormai è quasi ad altezza strada, tre ragazzini seduti a un tavolino di McDo giocano a carte, in un negozio di ottica un signore prova un paio di occhiali nuovi, penso a cosa mangiare nell’ultima sera libera e siccome non mi viene in mente niente decido di entrare al supermercato, incrocio una signora con due trolley pieni di provviste (“Madame, lei è così tanto Primo Lockdown”), prendo mezzo chilo di pessimi mandarini, vado al reparto formaggi e trovo due vecchietti, lei ha in mano una bottiglia di champagne, lui, dopo qualche esitazione, prende un Comté, le sussurra qualcosa all’orecchio che la fa molto ridere, poi si dirigono alle casse trascinando i piedi e facendo parecchio baccano, rimango a guardarli qualche istante, e quando infine esco all’aperto con lo zainetto pieno di libri, dvd e mandarini, penso che tutto sommato non fa poi così freddo, per essere a fine ottobre.

Ma perché?

Per festeggiare l’ennesimo giorno di coprifuoco, l’altra notte l’insonnia mi ha regalato il brivido di assistere in diretta all’arrivo dell’ora solare. Seduto in poltrona, gli occhi sbarrati e provvisoriamente sazi dalle precedenti tre ore di sonno, il corpo galleggiante nell’ovatta ovunque, la sensazione di potere che devono provare gli apparecchi elettronici quando, arrivati all’1%, sono rianimati da una batteria d’emergenza (ma è solo un fuoco di paglia, non dura, non durerà, la notte è lunga, troppe app, troppo cervello, troppo surriscaldamento) pensavo al fatto che in Francia l’ora legale e l’ora solare le chiamiamo heure d’été e heure d’hiver e mi chiedevo: “Ma perché?” (“E l’autunno? E la primavera?”) (“Si tratta di praticità? Di poesia? Di sciatteria?”). In mezzo a tutta questa perplessità, ma ormai ovviamente non stavo più pensando al cambio dell’ora, ho alzato la serranda e ho guardato fuori dalla finestra.

Come nel finale di quel film di Haneke in cui non si capisce se qualcuno abbia messo pausa o sia solo un altro mezzo di tortura psicologica inflitto a chi sta guardando, tutto era fermo. Sembrava che persino l’apocalisse stesse trattenendo il respiro, per verificare fin dove arrivare prima di arrendersi. Troppa stasi, troppa differita, troppo aspettare non si sa bene cosa, anzi no, una cosa che si muoveva c’era: una bicicletta, una di quelle a noleggio, era appoggiata senza garbo a una ringhiera, e il fanalino posteriore rosso lampeggiava senza sosta, avevo l’impressione di sentirne il battito anche a distanza: tic tac, tic tac, tic tac (“Ma perché lampeggia?”) (“Già, perché?”).

Mancava poco. Ho preso dalla tasca il telefono e ho aspettato il momento in cui sarebbero state le tre e poi le due, di nuovo. Il cuore mi batteva forte. Ho temuto che niente sarebbe più stato all’altezza di questa specie di trucco magico. Ho pensato a una mia amica, il giorno prima l’avevo chiamata perché avevo letto il titolo di un giornale (“Un’ora in più per dormire, un’ora in più per il coprifuoco”), e volevo lamentarmi con lei, chiederle “Perché improvvisamente tutti mi sembrano così cretini?”, ma lei mi aveva anticipato dicendo “Sai, mio marito è un cretino”.

Il mio problema con l’insonnia non è l’insonnia in sé, ma neanche in me, in te, in loro, in quelli che dicono: “Mi raccomando, stasera però cerca di dormire” (mio padre); “Hai provato con quella valeriana che ti ho messo l’anno scorso nel pacco da giù?” (mia madre); “Apri whatsapp, ti mando subito il contatto del mio nuovo spacciatore” (chi mi vuole davvero bene); “Signor Morabito”, pausa di compassione, mezzo sorriso, “per oggi la seduta è finita” (la mia ex-analista); “l’insonnia è bellissima, finalmente posso dedicarmi a me stessa” (persone mitomani a caso). No, il mio vero problema con l’insonnia è l’attimo in cui metti un piede nell’interstizio, e inizi a fluttuare, fluttuare, e provi ad aggrapparti a qualsiasi cosa (Malamud; Mia Ceran; Tom Mercier; i cereali mangiati direttamente dalla scatola) ma tutto scappa di mano, si sfarina, cede, non esiste: ciò che all’inizio era dolce assenza di gravità a poco a poco si trasforma in qualcos’altro, lo spazio si restringe il nero si allaga, come nel finale dei vecchi cartoni quando una specie di dissolvenza a monocolo lasciava solo un cerchietto con il protagonista e partiva la buffa musichetta, solo che questo non è un cartone e non c’è niente da ridere.

All’alba ho modificato manualmente l’orario del forno perdendo un po’ più di tempo del necessario perché mi sono messo a pensare che forse dovrei comprarmi delle ciabatte invernali, o forse no, poi ho iniziato a leggere l’edizione digitale di Libération dedicata alla gauche francese e all’Islam, alle divisioni interne alla gauche francese, ho annuito nel vuoto leggendo delle cose, mi sono innervosito leggendone altre, ho pensato a Samuel Paty, il professore decapitato, mi sono ritrovato in un vicolo cieco come ormai troppo spesso mi capita quando cerco di collocarmi politicamente, ho ripensato a quello che dicevo giorni prima a un’altra mia amica, sai non riesco più a entrare in un cinema, non ce la faccio, entro fine mese decido se disdire la tessera Ugc, ho pensato a una scena dell’ultimo film di Sorkin che sembrava scritta da Robert e Michelle King, e ho sorriso, quelli bravi io me li immagino che si divertono sempre.

Mi sono vestito pesante, ho messo una sciarpa di lana intorno al collo, ho preso l’ombrello, e sono uscito. Fuori pioveva in diagonale, le raffiche di vento freddo sollevavano le foglie esauste facendole roteare inutilmente prima di ributtarle per terra a schiaffi. Camminavo sul viale, e mi sentivo la faccia tagliata in due, una e due. All’incrocio con rue Cambronne una fila di taxi vuoti sonnecchiava in attesa di clienti, rivoli di pioggia mista a fango colavano sotto i marciapiedi, il fioraio dell’angolo ne approfittava per buttare secchiate di acqua lorda. Mentre attraversavo la strada per andare in boulangerie ho incrociato un tizio con i capelli lunghi ossigenati, una specie di versione adulta e ancora più irregolare del ragazzino di We are who we are. Indossava dei boxer da mare di color verde con tanti piccoli ananas stampati, una camicia hawaiana a fiori e un paio di infradito con cui sembrava pattinare sull’acqua, quale pioggia, quale freddo, quale cosce di fuori, quale preoccupazioni. Mi sono chiesto se vedesse in me la versione speculare dell’alieno che avevo di fronte, un’ apparizione resa concreta dall’unico dettaglio fuori posto, una mascherina slabbrata appesa al mento, gocciolante di pioggia. Ma poi l’ho superato, sono entrato in boulangerie e ho comprato i cornetti. Mi sono infastidito, perché la busta era troppo piccola e i cornetti sbucavano da sopra, si stavano già ammosciando. Tornando verso casa ho cercato il punto esatto del marciapiede sotto la mia finestra. La bicicletta era ancora appoggiata senza garbo alla ringhiera. Mi sono avvicinato per guardare il fanalino posteriore rosso: mi sembrava che lampeggiasse più debolmente, forse si sta scaricando, ho pensato, o forse è solo che di notte ogni cosa è più nitida, specialmente i fanalini che lampeggiano senza sosta e non sai perché.

Un pezzo alla volta

Dieci anni fa oggi — giorno più giorno meno — uscivo dalla casa di Pietralata per l’ultima volta e, dopo aver finito di caricare la twingo velvet (“Ci starà tutta la mia vita in macchina? Non sarà troppo pesante? E se mi fermano i ladri e mi rubano tutte cose?”, mi domandavo nei giorni precedenti, vagando di sgomento per le terre tiburtine), esalai il penultimo respiro, verificando che avevo malcalcolato i libri, libri sempre questi libri, e dovetti prima passare dalla posta di Piazza Bologna per spedirne alcuni pacchi a Palermo (“Ma ti servono proprio tutti?”, mia madre, al telefono) ritardando così l’addio di altre eterne ore, Roma non mi voleva proprio lasciare andare, no no no, ma poi partimmo sì sì sì, al plurale, ciao ciao e tante care cose,

e attraversammo Lazio, Toscana, Emilia Romagna e poi su su su, il piano fallito prevedeva la sosta a Lione invece fu Aosta e la mattina dopo prendemmo la rincorsa sul versante italiano del Monte Bianco che era tutto un grigio e pioggia e cupezza italiana e dopo gli 11 km uscimmo dall’altro lato che era sole, cielo azzurro e uccellini e soavità di Francia e dopo qualche ora di autostrade larghissime e paesaggi incontaminati e vuoti (“Ma dove cazzo vivono i francesi?” “Ai lati” “Ah ecco perché parlano sempre col culo a pizzo”), finalmente il périph che mi ingannò, così apparentemente rilassato in confronto al brutalism coatto del raccordo anulare, e anche se ancora non parlavo una parola di francese (“yo hablar francés un día”) e le cose si sarebbero assai complicate verso la fine della seconda stagione e l’inizio della terza, e lì per lì chi aveva voglia di pensare ai nuovi discutibili personaggi disagiati che avrei incrociato e alle storyline tutte uguali di emigrazioni oh oh oh che sofferenza oh oh oh mi manca la madrepatria oh oh oh lu sule lu mare lu ientu

Image for post

quando invece l’ingresso a Parigi dalla Porte d’Italie passando per Avenue d’Italie e Place d’Italie (“Ma che è, una persecuzione?” “Ma no, è solo destino”) si svolse in un clima di festosa fanfara, i semafori verdi e rossi ma non arancioni (“Non ne hanno bisogno, è gente civilizzata, sanno quando dire basta”), e le strade larghe larghe e senza traffico, ma quale Prenestina e Tuscolana, ci consegnarono dritti dritti alla prima casa parigina, i furon 21 mq di Place Monge, sesto piano senza ascensore, senti come suona bene?, se-sto-pia-no-sen-za-a-scen-so-re, la cucina in bagno e viceversa, che bella la rive gauche dov’è Isabelle Huppert dov’è Louis Garrel dov’è Jérémie Elkaïm (“Ma io voglio andare a rive droite voglio fare le occupazioni” “Le farai, le farai”), 21 mq a due passi dalla moschea, nemmeno il tempo di parcheggiare e una mendicante con qualcosa nel cappello vedendo la mia faccia mi parlò direttamente in arabo e io sorrisi e mi sentii diciamo a casa

e poi, portando la mia vita dalla twingo al se-sto-pia-no-sen-za-a-scen-so-re, all’ennesimo su e giù sommato ai due giorni di viaggio (“Si è rotto il giradischi” “Sarà stata quella frenata a Roncobilaccio”), su un pianerottolo di legno odoroso ebbi quel che oggi mi vien da dire un mancamento, ma le scale erano così strette di charme simil germanopratino e di trappole per topi che non riuscii nemmeno a svenire, mi sorresse la finestrella aperta sui troppi tetti della città, quel poco d’aria necessaria a certificare il salto dell’intercapedine tra i due mondi, rester vertical et revenir enfin sur terre, e non lo sapevo ancora ma avevo un piano, e il piano era andare verso Nord per perderlo, il Nord, e la bussola, e l’orientamento e tutte cose, e poi, con calma, rifare il puzzle daccapo, un pezzo alla volta, magari sarebbe andata meglio, ma intanto, dieci anni fa oggi, c’era da finire un trasloco, sì, un pezzo alla volta.

Palermo alla fine del mondo

E quando i terrestri avranno quasi esaudito il desiderio di estinzione, “come un branco di bufali che corsero compatti prima di lanciarsi da un burrone”, e rimarrà un solo essere umano a vagare tra terre morte e inospitali, e camminerà camminerà camminerà all’inutile ricerca di qualcosa per sfamarsi, e infine giungerà in questo luogo dove perse le scarpe pure il Signore, sulla costa palermitana un tempo sì rigogliosa, e vedrà questo tubo arrugginito, e si avvicinerà, e stringerà gli occhi a fessuretta, e, con il fievole fiato che gli sarà rimasto in corpo, pronuncerà a voce alta l’ultima parola prima di spegnere l’interruttore dell’umanità, bene, quella parola sarà: suca.

Ma quindi non possiamo abbracciarci?

Tra tutti i momenti surreali di questo anno un po’, come dire, sminchiato, nella Top Infinito ci mettiamo questo. La hostess che spiega l’inutile procedura d’emergenza (“se l’aereo cade”: quante probabilità ci sono che la storia vada avanti dopo un incipit così?), incartandosi con la mascherina chirurgica. La tocca, la mette di lato, la rende inutile (come le nostre vite, “se l’aereo cade”), in un incastro di lacci ed elastici, e io tiro un sospiro e una linea al fondo di questi cinque minuti: un malessere da archiviare prima possibile, lo sa lei e lo sa questo volo Parigi-Palermo, pieno per due terzi e molto, molto emozionato per il fatto di essere il primo volo in assoluto di questa compagnia dopo tre mesi e mezzo di **** (ognuno si senta libero di scegliere una sintesi qualsiasi).

“E se l’aereo cade mi raccomando niente panico, prendete la maschera dell’ossigeno con due mani, tirate l’estremità verso di voi e indossatela. Ma prima togliete la mascherina chirurgica, altrimenti, beh, non funziona”.

“Buongiorno a tutti, siamo molto contenti di avervi a bordo”, dice la voce maschile e calda del pilota, “e quando dico molto contenti intendo che siamo DAVVERO molto contenti”, e io e la tipa seduta un posto in là ci guardiamo nell’unico modo che ormai ci è concesso, nel profondo dei tuoi occhi nero petrolio, oh com’è sexy cercare di intuire chi c’è sotto la maschera, e sorridiamo di fremiti chiedendoci “ma perché non passa qui alla fila numero 7 e ce lo ripete altre tre o quattro volte quel DAVVERO?”, ma c’è poco tempo per sognare di ASSEMBRAMENTI proibiti. Siamo partiti da nemmeno dieci minuti e, nell’ordine: la vecchia davanti a me ha abbassato il sedile che si sente già a Mondello; un’altra vecchia, francese, inizia a tossire e, per farlo, abbassa la mascherina (“Signora lo sa che se inizia a fare così in Italia la arrestano per PROCURATO FOCOLAIO?”); una infante posseduta dal demonio strilla e piange come se là fuori ci fosse una pandemia globale e l’ultima cosa che lei vuole è farsi un lockdown con i passeggeri di questo aereo.

(Il mondo del dopo somiglia molto al mondo del prima)

“Accetta il controllo e l’apertura dello zaino?”
“E se mi rifiuto?”
“Non può”
“E allora perché me lo chiede?”
“Accetta o no?”
“Senta sbrighiamoci”

Ma nella Top Infinito da stilare per i posteri ci mettiamo anche:

– il tipo in uniforme del controllo di sicurezza, che, vedendomi vestito di nero con lo zaino nero –> cattivo –> minaccia, come se i cattivi non avessero altro di cui preoccuparsi in questo momento (“Non si disturbi a passare il bastoncino anti-qualsiasi cosa sul mio iPad, ho altre priorità io: la mia famiglia, ad esempio, altro che pandemia, altro che terrorismi”);

– il tipo addetto al controllo della febbre di Orly che me la misura e mi fa i complimenti per la mia salute (“WOW, IMPEC”), e io mi guardo attorno cercando di capire se grattarsi le palle è: a) ancora un gesto socialmente accettato, b) pur sempre un assembramento con me stesso, e dunque vietato dalle brigate di Musumeci; c) un privilegio da maschio bianco meridionale superstizioso (“oddio che orrore, ma ancora credi a queste cose, là fuori c’è gente che soffre sul serio e tu ti gratti le palle”), un maschio peraltro assai deludente che prima cede all’impulso del grattamento e poi si lava la coscienza mettendo like su Instagram a minoranze a caso con le cosce e il pugno di fuori;

-il modulo di autocertificazione di SANA E ROBUSTA COSTITUZIONE da presentare in aeroporto, “altrimenti le sarà rifiutato l’ingresso in aeroporto” (ma che nessuno mi chiederà mai), sommato al modulo di “self declaration form justifying travel in Italy of persons arriving from abroad”, in cui devi certificare qualsiasi cosa abbia a che fare con la violazione di un concetto che per cinque minuti andò di moda verso la fine degli anni ’90 (“la privacy”), da compilare, mi raccomando, con la penna in “vostro possesso perché noi su quest’aereo non abbiamo modo di SANIFICARE le BIC”, e qui vorrei aprire una parentesi sul geniale passeggero siciliano che inizia a dare in escandescenze fingendo di essere un analfabeta quando la hostess dice “i vostri dati personali”, e, con la scusa di non avere la penna (lo urla A GESTI) si rifiuta di compilare il modulo e nessuno gliene renderà conto da qui al ritiro bagagli (rendendo inutili, nell’ordine: la penna che mi sono portato da casa, le task force dell’OMS, l’umanità, TUTTE COSE);

-la registrazione al sito SiciliaSiCura, geniale invenzione musumeciana per preservare la PUREZZA SICILIANA e al contempo i PICCIOLI dei turisti, la quale registrazione prevede un check-in da fare appena si atterra su suolo immacolato (tempesta di mail che me lo ricordano in caps lock: ATTENZIONE SOLO QUANDO SARAI IN SICILIA): clicchi sul bottone e si apre una schermata con la domanda COME TI SENTI? E due possibili risposte: a) Sto bene; B) Sto male, abbattetemi.

Ma poi l’aereo non è caduto, ho fatto amicizia con più persone che in tutti i miei Parigi-Palermo precedenti (potenza degli interdetti: prendere gli aerei in tempi pandemici significa abbattere i muri, e avere solo voglia di parlare, condividere, stare vicini, sì, stare vicini), ho decantato le bellezze persino di Agrigento, ho dispensato consigli ma non segreti, ho espresso a due francesi che volevano provare la granita a Palermo tutto il mio disprezzo, ho recuperato la valigia di questo biglietto di sola andata, ho pensato Temevo peggio, ho pensato Sarà dolce scavallare in questo mare, mi sono diretto verso l’uscita, mi sono diretto verso il parcheggio.

I miei genitori mi aspettavano fuori dalla macchina. Erano loro, ero io. Mi sono avvicinato, mia madre mi ha guardato e ha detto Sei fatto troppo magro, mio padre mi ha guardato e mi ha detto Ma quindi non possiamo abbracciarci?