E quindi alle due e mezza di giovedì atterro a Fiumicino, prendo il trenino per Termini, vado a Monti (“Posso metterla nella lista infinita di case? Valgono quattro giorni?”), poso lo zaino e vado di corsa al Quattro Fontane, proprio oggi esce il film di Nanni Nanni Nanni, e ancora con il sapore in bocca del pessimo panino easyjet faccio il biglietto a 8.50 euro (“Come si vede che state ancora nelle grotte”), mi guardo attorno, non riconosco il cinema degli anni dell’università, devono averlo ristrutturato e meno male, non ho tempo e voglia per i lagrimoni, non stavolta, e neppure dopodomani, Nanni Nanni Nanni, ma quella storia di Scamarcio era proprio necessaria necessaria?, la sera scende su Roma e io non provo niente, ma niente proprio, la calamita mi porta a Piazza Farnese (“Dagli amici tuoi”) e a certi luoghi che meriterebbero pellegrinaggi di gruppo (“Sono sotto l’Abacus, scendi?”) e a certe lusinghe che solo qua, ma come è possibile?,
poi mi sveglio, vado al Libraccio, tutto uguale, sempre uguale, e poi a piedi fino al Macro, non c’è nessuno, tutto gratis e tutto per me, e poi il pranzo a Villa Torlonia, cantieri, quanti cantieri, e prendere il sole sull’erba secca secca ancora secca del 2004, e il Chiostro del Bramante, primo aperitivo, andiamo a Campo a farci il secondo, e il terzo?, e perché una bella gricia no?, e la mattina dopo ci sono già mille gradi e io ancora non ho voglia di lagrimoni ma di scarpette da corsa, colle oppio, villa celimontana, lavori in corso, sempre in corso, per sempre in corso, un km moltiplicato per dodici quanto fa?, ci vediamo a San Paolo, la cappa di sole bianco che vale più di mille sceneggiature e mille dialoghi, e i totani e i calamari e il polpo e ancora gli anni dell’università, uno gira pianeti e costellazioni e buchi neri e la cattedra di Abruzzese a Sociologia mi ritroverà sempre, Agrigento Garbatella Devastazione Ovunque,
e a Trastevere ci arrivo dunque saltellando con la spensieratezza demente di chi non si ricorda niente, ma poi che c’è da ricordare?, forse quel bar con lo Sceneggiatore Esperto che doveva essere il nostro mentore e invece voleva solo ubriacarsi e forse scoparti mentre io mi annoiavo guardando altrove, la banda militare intanto si sta apparecchiando per suonare l’Inno Nazionale davanti alla chiesa, i cellulari come gli accendini come ai concerti, Roma sempre bella di sorprese e di divise e di fasci a loro insaputa, ma poi le belle notizie, quelle belle belle belle, le amiche e gli amici che cambiano vita, tre giorni e già ne conto tre, tre che mi dicono Ho dato le dimissioni e io dico Hai fatto bene, pure io le darei se avessi un lavoro, ma ne ho quattro, come si fa, da chi da cosa mi devo dimettere?, e poi il cinema, l’ex Filmstudio che ora è una sala congressi e ogni tanto si ricorda dei film in sala, i plexiglass semoventi (“Fate finta che siete amanti lesbiche e ve lo fanno spostare, qui siamo in territorio liberato”), la bellezza del nostro lavoro finalmente mostrato (“Ma noi mica restiamo, lo sappiamo a memoria ‘sto film, ci vediamo fuori”) e gli abbracci e le facce mezze buie così non si vedono i decenni precipitati sui nostri occhi,
e la giovane donna con il senso del colpo di scena che mi prende il braccio e mi chiede ODDIO MA QUINDI TU SEI TFM? e il silenzio ci coglie così, ventenni con tanto tempo libero e blog da far girare a palla, vero V.?, (“QUESTO SÌ CHE È UN SIGNOR BONUS DVD”) e io le dico Chi te lo doveva dire che da splinder mi ritrovavi alle prese con il sadomaso e i frustini e lei mi molla un principio di lagrimone, il primo, che resta lì, primo e ultimo, sospeso nel gargarozzo, quando dice “Mi ricordo un post su Battisti, SAI io ti commentavo”, e io vorrei piangere, piangere davvero, ma non esce niente, grazie Roma, grazie per avermi dato un cuore di pietra dura e aguzza, “Scusate dobbiamo andare a mangiare le polpette”, oh sì le polpette quante polpette, che belle le mischielle di polpette a Trastevere, a parlare mezzo inglese e mezzo chissà con questo gigante regista di due metri e mezzo (“Ohhh Nicooooh tell me your opinione about science-fiction” “Ohhh Jaaakkke I don’t know, per caso you wanna taste this polpetta con la scamorza?”), e G. che guida come si deve guidare a Roma, cioè come i selvaggi assassini e psicopatici, o forse solo come gli eterni minorenni sul lungotevere che pensano di avere il mondo in mano e tra qualche lustro saranno al posto nostro, toh, tenete questo ricordo, eccolo, e i coinquilini provvisori russi, con l’infante che piange e strepita e urla alle due del mattino e io do pugni sul muro come quando abitavo sulla Cassia (“Ma non avevi detto che tu solo Roma Est?”),
e la seconda colazione della domenica con l’amico ritrovato ci coglie così, siamo non dico reduci ma forse solo gente onesta che si dice le cose anche con dodici anni di distanza, le cose che di solito non si dicono, e poi tante altre, e uno due e tre abbracci davanti al benzinaio dell’Appia (“Certo che Roma è sempre così cinema”), e la seconda proiezione a Trastevere (“Questa è davvero La dernière séance”) (“Quante altre battute sul titolo dobbiamo sorbirci?, così, per regolarci”) insomma è per pochi intimi ma buoni (“Prego accomodatevi, fate come se foste a casa mia”), il dibattito lo facciamo fuori con le mani a visiera sugli occhi, è l’ultima volta, stavolta, che vedo questo sole bianco putrescente, oh Roma che bella che sei Roma, mentre schizzo a piedi sul Ponte Sisto in mezzo ai boati come bombe del derby, che poi che devi fare a Roma, magnà e bève, e allora che sia, una due cento bottiglie di Pecorino dell’Abruzzo, tanto a casa, o quello che è, ci arrivo a piedi, quella volta dissi 1471 km tutto dritto da Pietralata a Place Monge che ci vuole, in effetti sì, che ci vuole, il tempo di brindare con altri derelitti a via Merulana, e poi a Termini, sempre Termini, e Fiumicino, e a mezzanotte atterro a Charles De Gaulle, prendo la Rer B che si blocca a Aulnay-sous-Bois per dieci, venti, mille minuti e un tipo si innervosisce, fa avanti e indietro, dà pugni sul vetro, sputa per terra, e io intanto sbadiglio e penso che questo film l’ho già visto, e per movimentare la cosa il protagonista a questo punto dovrebbe guardare fuori dal finestrino lercio, riconoscersi con aria sorpresa nel riflesso mentre infine un copioso lagrimone gli scende sulla guancia, ma poi il treno riparte, destinazione Denfert-Rochereau: ciao ciao Roma, io torno a casa, quella vera.